Il pericolo dell’algoritmo e l’opportunità dell’intelligenza artificiale (di G. Gambino)
Nell’immaginario collettivo la Rete non appartiene a nessuno e, come tale, è libera da ogni filtro e censura. Sebbene l’intento fosse quello di un grande spazio comune aperto a tutti, a ogni latitudine del globo, oggi il web è diventato un luogo angusto, sempre più stretto e pieno di ostacoli. Non certo perché “non ce lo […]
![Il pericolo dell’algoritmo e l’opportunità dell’intelligenza artificiale (di G. Gambino)](https://www.tpi.it/app/uploads/2025/02/pericolo-algoritmo-opportunita-intelligenza-artificiale-editoriale-gambino-1024x538.jpg?#)
Nell’immaginario collettivo la Rete non appartiene a nessuno e, come tale, è libera da ogni filtro e censura. Sebbene l’intento fosse quello di un grande spazio comune aperto a tutti, a ogni latitudine del globo, oggi il web è diventato un luogo angusto, sempre più stretto e pieno di ostacoli.
Non certo perché “non ce lo dicono” ma molto più semplicemente perché gli interessi di quei pochi padroni della Rete – i cosiddetti colossi del web, vere e proprie oligarchie più potenti e ricche di Stati sovrani eletti democraticamente dal popolo – sempre più di rado collimano con quelli pluralisti e democratici delle grande masse. Che le Big Tech vogliono poter controllare e plasmare attraverso un algoritmo che, in essenza, standardizza la cultura di massa, polarizza il dibattito pubblico e annienta la complessità del pensiero.
La democrazia muore nelle tenebre delle oligarchie Big Tech. Già, perché il fine ultimo del capitalismo della sorveglianza (leggete le parole di Zuboff nel servizio dedicatole) è quello di mettere a disposizione del governante di turno (da servire compiacere per i propri affari) un popolo analfabeta digitale, sottomesso e rincretinito dalla malattia dello scrolling infinito, inebetito dai video di pochi secondi, appiattito sulla vulgata del mainstream politically correct, addomesticato dal pensiero unico.
È accaduto con i democratici e la cultura woke negli Usa; accade ora con Trump e la sua politica reazionaria anti-woke (prova ne sia la foto emblematica dei grandi del web alla corte di Donald nel giorno del suo insediamento). Mai come oggi il web è compromesso. Immaginate di essere un lettore online alla ricerca di una notizia su Gaza, Giorgia Meloni o Donald Trump.
Gli algoritmi delle piattaforme più importanti del web, da Google a Meta, funzionano così: se digito una query su Google – “ultime notizie gaza”/ “indagine Giorgia meloni” / “condanna a trump” – vengono fuori una serie di risultati, in base a criteri non pubblici e meno che mai trasparenti di un algoritmo che è paragonabile alla ricetta della Coca-Cola, dunque segretissimo. Gli standard, nelle intenzioni, vorrebbero e dovrebbero attenere alla qualità di un contenuto e a quanto questo possa incontrare i criteri di ricerca posti nel Questo to dall’utente, insieme a una serie di altre valutazioni fra cui la serietà della testata, gli anni di esistenza, il numero di giornalisti, la trasparenza (sic!!) delle testate stesse, l’affidabilità, e un’infinità di altre cose.
In parte, si tratta di grandi sciocchezze. Per due motivi: 1. Il motore di ricerca di Google è assai ben bucabile nel senso che spesso e volentieri ci si imbatte in siti opachi che non rispettano alcuna fra le caratteristiche appena elencate, e che arrivano a dominare i ranking di quel motore di ricerca per settimane o mesi, prima di essere duramente puniti e spediti nell’Inferno (quello sì che somiglia davvero a un diritto all’oblio!): per cui è molto poco coerente e chiaro, oltre che non trasparente; 2. le testate che appaiono in cima ai risultati sono, di frequente, quelle che riportano solo una parte delle notizie che quell’utente sta cercando. Testate che, tra l’altro, assorbono per volumi di traffico (e quindi di ricavi pubblicitari) la gran parte degli utenti che – loro malgrado – ritengono l’offerta editoriale esaurita in quel recinto molto ristretto e ben delimitato, senza riuscire a scovare notizie presenti in Rete ma sepolte volontariamente o per errore nei meandri del Far-Web. Va da sé, quindi, che anche Google abbia il proprio TeleTrump, TeleMeloni, Tele Gaza.
Questo fenomeno distorto appare ancora più evidente su Meta, dove prima con Facebook e ora con Instagram Zuckerberg ha pensato bene di penalizzare nei risultati del feed (al pari cioè dei risultati di ricerca su Google: quelli che appaiono per prima) determinate notizie e storie riguardanti temi scomodi e controversi, spesso inediti. Il che rende questa piattaforma un luogo tutto fuorché aperto, accessibile, open-source ma se mai controllato e filtrato per definizione. Per di più da pochi ignoti. Senza conoscere in maniera chiara la posizione e la politica di chi la possiede, quella piattaforma. La grande illusione delle piattaforme web si rivela per quel che è: ci hanno a lungo ripetuto il mantra che se un prodotto è gratuito, il prodotto siamo noi — nel senso che comprano il nostro consenso, gratis, per indirizzare e modellare e quindi dominare le persone.
Il grande tradimento della Rete è aver reso vano il tentativo originario, estremamente nobile, di mettere nelle mani della collettività uno strumento davvero utile e unico nella sua potenzialità, svendendolo nelle mani di pochi interessi privati. In questo senso gli Stati non sono stati in grado di tutelarne la sovranazionalità, regolando l’acquisizione selvaggia dei colossi GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft).
L’intelligenza artificiale, che le piattaforme del web temono e rincorrono con decenni di ritardo, rischia fortunatamente di sovvertire il ruolo scriteriato e ampliamento abusato delle Big Tech perché questa enorme rivoluzione culturale per la prima volta permette all’uomo di dialogare direttamente con le macchine, sfruttando al massimo il loro potenziale e potendole modellare a proprio piacimento. L’esatto opposto, cioè, di quanto accaduto con l’uomo e la Rete negli ultimi vent’anni.