L’alleanza tra populismo, tecnocrazia e sovranismo nell’America di Trump

La tesi di Ronchi è che populismo e sovranismo hanno la stessa genealogia, la quale non è, in fondo, molto lontana da quella della democrazia. Il Bloc Notes di Michele Magno

Feb 8, 2025 - 08:37
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L’alleanza tra populismo, tecnocrazia e sovranismo nell’America di Trump

La tesi di Ronchi è che populismo e sovranismo hanno la stessa genealogia, la quale non è, in fondo, molto lontana da quella della democrazia. Il Bloc Notes di Michele Magno

Nella sua recensione del libro di Rocco Ronchi “Populismo/Sovranismo. Una illustre genealogia” (Castelvecchi, novembre 2024), Alessandro Carrera -docente di Letteratura italiana alla University of Houston- ricorda “Un volto nella folla”, un vecchio film di Elia Kazan (1957). Racconta la travolgente ascesa di Larry “Lonesome” (solitario) Rhodes, ex cantante country interpretato da Andy Griffith che, scoperto dalla conduttrice di una trasmissione radio, diventa presto un idolo delle   folle destinato a una brillante carriera politica. Ma Marcia, la produttrice che si è innamorata di lui, decide di punirlo per i suoi tradimenti. Un giorno lascia acceso il microfono alla fine di un programma televisivo, e poi diffonde la registrazione in cui Rhodes dà degli idioti a coloro che lo seguono. Il suo indice di gradimento crolla e la sua carriera politica viene stroncata (DoppioZero, 28 gennaio 2025).

Oggi non è più così. Quando Donald Trump ha detto “Amo gli ignoranti” (“I love the uneducated”), non ha perso voti, ne ha guadagnati. Il populista che disprezza il popolo viene quindi osannato dallo stesso popolo che viene disprezzato. Come è possibile? Il filosofo della politica Michael Sandel sostiene che i movimenti populisti, negli Stati Uniti e non solo, sono una rivolta delle masse contro le élite che si ritengono, per nascita e censo, “la metà migliore” (“La tirannia del merito”, Feltrinelli, 2023). Tuttavia, durante la cerimonia del suo giuramento, accanto a Trump non c’erano gli operai del Michigan, ma gli uomini più ricchi e potenti del pianeta, nessuno dei quali ha mai nascosto la sua ostilità per i sindacati e i diritti dei lavoratori. Come si è realizzata questa “unholy alliance”, questa “alleanza oscena” tra populismo, tecnocrazia e sovranismo?

La tesi di Ronchi è che populismo e sovranismo hanno la stessa genealogia, la quale non è, in fondo, molto lontana da quella della democrazia. Tutti e tre predicano il primato assoluto della sovranità del popolo. Poi declinano questa sovranità e il termine popolo in modi diversi, ma la loro comune genesi sta in quella “metafisica moderna della libertà” le cui radici vanno cercate nell’illuminismo kantiano (e nell’empirismo inglese).

L’illuminismo vuole che l’individuo si faccia soggetto autonomo, che metta in discussione l’autorità, ogni autorità, tranne quella della ragione scientifica. Se però qualcuno si alza per dire che anche sottomettersi all’autorità della ragione scientifica non è diverso dal sottostare a una tirannia, ecco che l’edificio della razionalità comincia ad incrinarsi. Il profeta di questa demolizione è il protagonista delle “Memorie del sottosuolo” di Dostoevskij (1864), il risentito contro il mondo il quale afferma che non c’è vera libertà se non c’è il diritto di dire che due più due fanno cinque. Perché la mia volontà non deve avere padroni.

Si pensi all’ormai celebre braccio teso di Elon Musk mentre esulta per la vittoria di Trump. Quel saluto para-fascista, in realtà, rappresenta simbolicamente la convergenza tra populismo anti-istituzionale e la forma più estrema del libertarismo. Del resto, il grande teorico liberale Isaiah Berlin lo ha dovuto ammettere. A fondare il diritto assoluto di una convinzione, scrive in “La libertà e i suoi traditori” (pubblicato nel 2002 ma basato su conferenze del 1952), è il solo fatto di essere una mia convinzione. La sua verità è del tutto inessenziale. Non per caso gli ultralibertari, negli anni della pandemia, consideravano l’obbligo della mascherina in pubblico come l’equivalente di una dittatura orwelliana.

Platone paragonava la virtù politica alla destrezza del timoniere che conduce la nave in porto, conoscendo le correnti e scivolando sulle onde senza mai sfidare apertamente il mare. In questo senso, nessuno è così odiato, dal populista come dal sovranista, come il riformista vero. Joe Biden è stata la persona più odiata da mezza America, al punto che gli stessi democratici -al di là dei suoi guai legati all’età-  non hanno saputo più come difenderlo e oggi sperano solo che la storia sia pietosa con lui almeno come lo è stata con Jimmy Carter. Se nei confronti di Kamala Harris c’era disprezzo, nei confronti di Biden c’era una rabbia del tutto sproporzionata anche rispetto agli errori che può aver commesso.

I democratici possono vantare l’endorsement di Taylor Swift, Oprah Winfrey e Beyoncé, ma non c’è  gara se l’avversario esibisce Elon Musk. E i sovrano-populisti “non hanno siglato un patto con lui e il suo presidente solo per l’abbassamento dell’inflazione o la diminuzione dell’immigrazione clandestina, bensì per il godimento che provano quando comprano i bitcoin dai distributori automatici che già pullulano nei supermercati e nelle stazioni di benzina” [Carrera].

Negli Stati Uniti chi appartiene alla classe medio-alta, se ha un buon stipendio e la possibilità di investirne gradualmente una parte, con un po’ di abilità e fortuna può trovarsi benestante all’età della pensione. Questa democrazia della ricchezza tocca una percentuale minoritaria della popolazione, e solo in pochi e privilegiati paesi, ma non può essere trascurata, come invece viene spesso trascurata nelle analisi politologiche. Perché contribuisce a un “rimescolamento dei valori” al termine del quale l’unico valore che rimane è, appunto, la ricchezza. Non la ricchezza di chi possiede migliaia di satelliti, ma il benessere di quell’anziano il quale magari scopre all’improvviso che la democrazia e i diritti umani non hanno fatto fruttare i suoi risparmi.

Il capitalismo avanzato è riuscito nell’impresa di rendere sua complice la classe lavoratrice. Molti hanno salutato con soddisfazione maligna l’omicidio di Brian Thompson, l’amministratore delegato della compagnia di assicurazioni UnitedHealthcare, ben nota per il numero di rimborsi che nega agli assicurati. Ma quanti di coloro che hanno scritto tuìt di simpatia per Luigi Mangione (l’assassino) sanno che i loro fondi pensione sono investiti proprio nella ditta dell’amministratore ucciso? Se “la mia assicurazione decide di non rimborsarmi perché deve garantire il profitto più alto possibile agli azionisti, e se tra quegli azionisti indirettamente ci sono anch’io, contro chi dovrei protestare?” [Carrera].