Invecchiare sembra diventato il peggior insulto a noi stessi, invece dovremmo imparare a farlo
La nostra società è ossessionata dalla giovinezza, per un insieme di diversi motivi che intrecciano ragioni biologiche e socio-culturali. Forse, invece di foraggiare questa fobia, dovremmo cambiare semplicemente prospettiva sull’invecchiamento, accettandolo per poterlo fare al meglio, visto che non possiamo evitarlo. Il tempo che passa ha un valore, che per qualche ragione ci ostiniamo a non considerare. L'articolo Invecchiare sembra diventato il peggior insulto a noi stessi, invece dovremmo imparare a farlo proviene da THE VISION.
Per quanto mi riguarda credo di essermi resa conto per la prima volta del tempo che effettivamente passa solo quando qualcuno, venendo a sapere la mia età, ha commentato: “Ah! Pensavo meno”: nell’intima soddisfazione che ho provato in quel momento c’era tutta la consapevolezza di essere ormai anche io tra quelle e quelli che sperano di sembrare più giovani, perché il contrario è visto come una tragedia. Siamo fissati – più o meno consapevolmente – con l’aspetto fisico, che deve aderire a standard ben determinati, e non sappiamo vedere la bellezza dell’età matura. E se i motivi per cui la giovinezza ci ossessiona così tanto sono vari – tra cui anche alcune ragioni antropologiche e biologiche dell’attrazione – ci sono anche quelli politico-economici che manovrano o, quanto meno, influenzano questa tendenza collettiva.
Circa un quarto della popolazione italiana oggi ha più di 65 anni e si calcola che tra meno di vent’anni gli ultraottantenni saranno più di sei milioni e gli ultranovantenni circa 1,4 milioni. Il tema urgente quando si tratta di età, quindi, dovrebbe essere quello dell’invecchiamento, che si pone soprattutto ora che, a un rapido allungamento della vita avvenuto nel giro di pochi decenni, non è corrisposto un adeguamento della consapevolezza esperienziale e della prassi nel trattare e considerare l’età anziana, come pure non sono molto cambiate nemmeno le abitudini personali e sociali. Invece di educare la popolazione e di promuovere a vari livelli abitudini di vita e salute positive, sembra che semplicemente siamo costretti a restare esteticamente giovani, obbligati a dimostrare meno anni di quanto non dica la carta d’identità, come se invecchiare fosse il peggiore insulto a noi stessi e a chi ci sta intorno, un’idea a cui cercare di non pensare nemmeno, una condizione da raggiungere senza investire davvero sul nostro benessere psicofisico, quando invece dovremmo operare i necessari cambiamenti per ottenerlo, unico modo non per “sembrare” giovani, ma per restarlo più a lungo davvero; proprio perché, come direbbero i saggi, invecchiare non è qualcosa di indesiderabile, anzi, significa che non siamo morti.
Bryan Johnson – il miliardario tech che investe il suo patrimonio e l’intera durata delle sue giornate nel progetto di ritardare l’invecchiamento biologico, con sveglia alle 4:30 per misurazioni ed esami, tra manciate di pillole, macchinari vari, verdure al vapore e, in passato, anche l’esperimento di trasfusione di plasma dal figlio – può essere considerato il frutto di questa visione. Per le persone comuni, però – che non hanno milioni da spendere e vogliono forse godersi un po’ di più la vita, invece di dedicare ogni singola ora della propria esistenza a combattere coi mulini a vento degli anni che passano – il tempo non può essere fermato, né tantomeno invertito. Per fortuna non servono routine tanto drastiche e investimenti tanto grossi per avere un invecchiamento sano, che effettivamente sarebbe un obiettivo auspicabile non solo per la società – per la quale significherebbe importanti risparmi economici per il sistema sanitario e molti problemi in meno nella gestione del sistema di cura – ma per le singole persone innanzitutto. Se si è in salute, infatti, si può condurre una vita autonoma e appagante anche dopo gli 80 anni, un’età in fin dei conti oggi alla portata dei più, almeno in Italia dove la speranza di vita supera gli 83 anni. Ed è positivo, quindi, che almeno una parte della possibilità di mantenersi attivi e in salute e, quindi, di invecchiare lentamente e bene, sia potenzialmente nelle nostre mani.
Ma la responsabilità di raggiungere in salute alla maturità e all’anzianità non può essere scaricata interamente sul singolo, perché è influenzata dall’ambiente circostante, come appare ovvio guardando ai più recenti dati europei disponibili, che stimano che circa 240mila morti premature all’anno siano causate dall’inquinamento da polveri sottili. Le condizioni ambientali influiscono in modo netto sul fisico – compreso sul suo aspetto – e sulla sua salute complessiva, dato che secondo l’OMS circa il 24% di tutte le malattie nel mondo è dovuto all’esposizione a fattori ambientali. Come se non bastasse, anche su quegli elementi su cui abbiamo, in teoria, il potere di intervenire facciamo troppo poco, perché se lo stato della nostra educazione alimentare – per citarne una – è disastroso è anche perché a scuola non viene insegnata – è così che abbiamo finito per credere che basti innaffiare tutto di extravergine d’oliva per seguire un’alimentazione mediterranea – e le campagne ministeriali sul tema sono ostaggio di discutibili politiche agricole e della glorificazione delle presunte eccellenze italiane. Per non parlare dell’educazione all’attività fisica, tra scuole impreparate e ossessione per un fitness performativo e votato all’estetica e poco ai benefici per l’organismo.
E poi non tutti hanno gli strumenti per informarsi e le possibilità per valutare criticamente le informazioni che ricevono: e questo sarebbe un altro enorme tema di equità dell’accesso all’informazione. Che c’entra eccome anche con l’invecchiamento sano, perché in un Paese in cui gli investimenti in cultura e promozione della lettura sono il fanalino di coda delle spese non ci si può aspettare che tutti diventino lettori voraci alla soglia della terza età, per il bene del proprio cervello. Tanto più che, quando si tratta di invecchiamento attivo, bisogna giocare d’anticipo e coltivare fin da giovani non solo letture, ma anche interessi e amicizie. Infatti, le interazioni sociali sono associate a un ridotto declino cognitivo con l’avanzare dell’età, come dimostrato da vari studi, tra cui una una meta-analisi svolta dall’Università UNSW di Sidney da cui è emerso che, man mano che le persone invecchiano, avere relazioni sociali è associato a un declino più lento delle funzioni cognitive grazie alla stimolazione di connessioni neuronali, memoria e buonumore.
Solo che, quando le giornate sono scandite da ore di lavoro sfiancanti e altri impegni, difficilmente la sera si è abbastanza attivi da frequentare un corso di lingua, leggere saggi o dedicarsi a qualche altra attività che tenga vivace il cervello. Lo stress che caratterizza la quotidianità di molti – ancor più delle donne, su cui continua a ricadere la maggior parte del lavoro domestico e di cura, che sottrae tempo ed energie ad altro –, poi, influenza negativamente corpo e mente; dagli studi emerge, infatti, che lo stress determina un più rapido accorciamento dei telomeri cellulari – cioè le parti terminali dell’elica del DNA, che le impediscono di sfibrarsi – oltre a contribuire a uno stato di infiammazione cronica che, a sua volta, favorisce patologie come aterosclerosi, diabete e ipertensione. Le conseguenze sono, infatti, a cascata, anche a livello neurologico, e innalzano l’età biologica: se siamo stressati, in sintesi, invecchiamo prima. Amaramente ironico, quindi, che proprio oggi che vivere di corsa in stato di perenne stress è socialmente accettato, quasi come uno status symbol, siamo così ossessionati dal rimanere giovani per sempre.
Ma c’è un altro aspetto interessante: se non possiamo ignorare l’importanza della cura di sé – quella vera, che non va ridotta a uno specchietto per allodole del marketing – del corpo sano e di una mente elastica e attiva, da mantenere a lungo, vale anche la pena di indagare i motivi socio-economici di questo chiodo fisso dell’età. Gli aspetti che leghiamo alla giovinezza – certi canoni estetici più o meno culturalmente determinati, ma anche l’idea di forza e salute che vi associamo – e l’incitamento sociale (quando non la coercizione psicologica) a mantenerli il più a lungo possibile, infatti, sono funzionali a un sistema economico che idolatra crescita e produttività, demandando ai singoli la responsabilità di contrastare l’effetto del trascorrere degli anni. I messaggi in proposito non sono nemmeno troppo velati, come sottolinea la giornalista Francesca Faccini, che riporta le parole della Fondazione Aeon, che si occupa di politiche per la longevità: “Agire sulla qualità dell’invecchiamento avrebbe un impatto economico positivo […] perché un individuo sano fa scelte più orientate al consumo, alla gestione attiva del tempo libero e ha maggiore forza per lavorare”. Certo, non si può ignorare il problema che l’allungamento della vita pone rispetto alle pensioni, ma non è un caso – come nota ancora Faccini – che siano proprio le società industrializzate a essere più fissate con l’età e il tempo che passa, dando luogo al paradosso per cui, proprio nei contesti in cui la vita dura sempre di più, l’anzianità, invece che una conquista, è vista come una disgrazia.
E può esserlo davvero, se ci arriviamo malati, in grave declino cognitivo e non autosufficienti. Oggi facciamo poco sport, mangiamo male, beviamo troppo, non leggiamo e siamo sempre più soli: considerando i fattori che favoriscono un invecchiamento sano, non siamo messi benissimo. In compenso, schiacciati dalla pressione sociale sul nostro aspetto, spendiamo soldi in creme miracolose fin dall’età prepuberale e in medicina estetica, ci agghindiamo da ragazzini e facciamo di tutto per non rivelare la nostra età. Forse, invece di foraggiare questa fobia socialmente determinata, dovremmo cambiare semplicemente prospettiva sull’invecchiamento, visto che non possiamo evitarlo, sia a livello intimo che collettivo, politico e sociale, oltre che estetico. Il tempo che passa ha un valore, che per qualche ragione ci ostiniamo a non considerare. La nostra esistenza non può ridursi al nostro lavoro e alla nostra efficienza, così come non ci meritiamo di essere considerati dal sistema solo finché produciamo Pil diretto.
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