Perché Open di Mentana sbrocca per la nuova Meta di Zuckerberg
I fact-checker che lavorano per il programma che Mark Zuckerberg ha deciso di chiudere hanno inviato una lettera al Ceo di Meta per smentire quanto da lui detto e spiegare come funziona veramente il loro lavoro. All'appello si sono uniti anche i progetti di fact-checking italiani di Pagella Politica/Facta news e Open. Fatti e commenti
I fact-checker che lavorano per il programma che Mark Zuckerberg ha deciso di chiudere hanno inviato una lettera al Ceo di Meta per smentire quanto da lui detto e spiegare come funziona veramente il loro lavoro. All’appello si sono uniti anche i progetti di fact-checking italiani di Pagella Politica/Facta news e Open. Fatti e commenti
La decisione – o trumpata – di Mark Zuckerberg di interrompere la collaborazione con i fact-checker indipendenti, per ora solo negli Stati Uniti, in nome del free speech, ovvero della libertà di espressione, ha ovviamente provocato la reazione dei diretti interessati, i quali hanno scritto una lettera aperta al Ceo di Meta affermando che “ci saranno danni nel mondo reale”.
Tra coloro che hanno firmato l’appello anche i progetti di fact-checking italiani di Pagella Politica/Facta news e Open, che ricevono un contributo economico da Meta.
LA LETTERA DEI FACT-CHECKER
In risposta all’annuncio di Zuckerberg di mettere fine al Third-Party Fact-Checking Program (3PFC) – il programma lanciato nel 2016 negli Stati Uniti e poi esteso a più di 100 Paesi (tra cui l’Italia) per controllare la veridicità dei contenuti postati sui social media – coloro che lo fanno di lavoro, i cosiddetti fact-checker, riuniti nell’International Fact Checking Network (Ifcn), hanno invitato con una lettera aperta il papà di Facebook a tornare sui suoi passi.
“L’obiettivo [del progetto] – si legge – era informare gli utenti sulle informazioni false per rallentarne la diffusione, senza censurare. […] Anche la libertà di dire perché qualcosa non è vero è libertà di parola”. Gli autori della lettera ricordano poi che “Meta non ha mai dato ai fact-checker la capacità o l’autorità di rimuovere contenuti o account. […] Ma la realtà è che lo staff di Meta ha deciso come i contenuti ritenuti falsi dai fact-checker debbano essere declassati o etichettati”. Inoltre, “diversi fact-checker nel corso degli anni hanno suggerito a Meta come migliorare questa etichettatura per renderla meno invasiva ed evitare anche solo l’apparenza della censura, ma Meta non ha mai agito in base a questi suggerimenti”.
PERCHÉ SI RISCHIANO SERIE CONSEGUENZE
“Il piano di terminare il programma di fact-checking nel 2025 si applica solo agli Stati Uniti, per ora. Ma Meta ha programmi simili in più di 100 Paesi, tutti molto diversi tra loro e in fasi diverse di democrazia e sviluppo. Alcuni di questi Paesi sono molto vulnerabili alla disinformazione che favorisce l’instabilità politica, le interferenze elettorali, la violenza di massa e persino il genocidio. Se Meta decide di interrompere il programma a livello mondiale, è quasi certo che in molti luoghi si verificheranno danni reali”, avvertono i fact-checker.
LE ACCUSE DI CENSURA E POLITICIZZAZIONE
Circa le accuse mosse da Zuckerberg riguardo al fatto che il programma è diventato “uno strumento di censura” e che “i fact-checker sono stati troppo politicamente di parte”, gli interessati le hanno smentite affermando che “Meta ha richiesto a tutti i partner del programma di soddisfare rigorosi standard di apartiticità attraverso la verifica dell’International Fact-Checking Network”. “Ciò significa – spiega la lettera – che non devono essere affiliati a partiti politici o candidati, non devono sostenere politiche e devono impegnarsi costantemente per l’obiettività e la trasparenza”.
Inoltre, “ogni organizzazione giornalistica è sottoposta a una rigorosa verifica annuale, che comprende una valutazione indipendente e una peer review”.
Gli autori poi riferiscono anche che “Meta ha esentato i politici e i candidati politici dal fact-checking come misura precauzionale, anche quando diffondono falsità note”, mentre “i fact-checker, nel frattempo, hanno affermato che i politici dovrebbero essere sottoposti a fact-checking come chiunque altro”.
COSA DICONO I DATI SULL’UTILITÀ FACT-CHECKING
In merito all’utilità del programma di fact-checking, gli autori della lettera affermano che “Nel corso degli anni, Meta ha fornito solo informazioni limitate sui risultati del programma, anche se i verificatori e i ricercatori indipendenti hanno chiesto più volte ulteriori dati”.
L’appello, oltre a ricordare di quando Zuckerberg si è vantato di fronte al Congresso dell’iniziativa, ritiene comunque che “da quello che si è potuto capire, il programma è stato efficace” poiché “le ricerche hanno indicato che le etichette di fact-check riducono la credenza e la condivisione di informazioni false”. Per esempio, secondo un’analisi del 2021, condivisa da Justine Isola, responsabile della politica di disinformazione di Facebook, il 95% delle volte che un utente incontra un contenuto sottoposto a fact-checking non continua a condividere o a impegnarsi con quel post. Sempre Isola aveva detto che i fact-checker erano stati fondamentali per aiutare a individuare e rimuovere alcune delle disinformazioni più dannose riguardo al Covid-19.
Giovanni Zagni, direttore dei progetti di fact-checking di Pagella Politica/Facta news, su Appunti di Stefano Feltri, ha invece sottolineato che “secondo i dati forniti dalla stessa Meta, le decisioni dei fact-checker sono state ribaltate “in appello” solo nel 3 per cento dei casi”, mentre “per ogni altra categoria di moderazione – di cui, è bene precisarlo, non si occupano i fact-checker – le percentuali sono sempre superiori al 60 per cento: 92 per cento nel caso di bullismo, 86 per cento violenza e così via (i dati si riferiscono a Facebook e sono molto simili anche per Instagram)”.
Zagni ha anche sottolineato che – pur essendo del tutto legittima la scelta di Zuckerberg – Meta non ha fornito “dati, studi o ricerche che abbiano dimostrato l’inefficacia del programma in sé”, semplicemente perché “non si può dire in modo definitivo”, mentre esistono “molti studi scientifici (come questo, questo, questo, questo e questo) che mostrano come apporre etichette ai contenuti di disinformazione abbia un effetto positivo sulla loro mancata diffusione e sulle convinzioni degli utenti”.
COSA FANNO REALMENTE I FACT-CHECKER
A difesa del lavoro dei fact-checker si è pronunciato anche il vicedirettore, con delega al Fact-checking, di Open:
Ma perché il lavoro del fact-checker non ha niente a che fare con le opinioni personali? Zagni porta l’esempio dei contenuti più recenti pubblicati da Facta: “una foto falsa (creata con l’intelligenza artificiale) riguardo gli incendi in California, una notizia falsa (che in Italia circola da settimane) su una nuova tassa sul libretto di circolazione, un’altra notizia inventata su Musk che acquista Boeing […]”.
Dunque, “nulla di tutto questo riguarda opinioni, men che meno opinioni politiche, né è servito a censurare la libera espressione del pensiero di nessuno […] Gli utenti possono comunque decidere di cliccare, vedere, condividere, e possono anche restare dell’idea che la scritta “Hollywood” sia veramente andata in fiamme, anche se non è vero […] Ma un video manipolato è un video manipolato, e dipingerci come i censori del libero pensiero per portare avanti un’agenda di estrema sinistra è ridicolo”.
Infine, Zagni conclude affermando che “in un mondo in cui le notizie non sono più monopolio di pochi grandi media – televisioni, radio, giornali – ma circolano in modo libero e spesso orizzontale, non mediato, con origini incerte, il debunking è un servizio necessario” perché a prescindere dalle proprie opinioni “resta la necessità di chiamare le cose con il loro nome, e di dire che una balla è una balla”.