Vittorie e tragedie sul K2. Il 5 febbraio 2021 muoiono Mohr, Snorri e Sadpara

Venti giorni dopo la clamorosa salita del team nepalese, il pakistano Muhammad Ali Sadpara, il cileno Juan Pablo Mohr e l'islandese John Snorri scompaiono sulla piramide sommitale del K2 L'articolo Vittorie e tragedie sul K2. Il 5 febbraio 2021 muoiono Mohr, Snorri e Sadpara proviene da Montagna.TV.

Feb 5, 2025 - 15:12
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Vittorie e tragedie sul K2. Il 5 febbraio 2021 muoiono Mohr, Snorri e Sadpara

Quattro anni fa, all’inizio del 2021, la storia dell’alpinismo sul K2 fa un grande e celebre balzo in avanti. Negli anni precedenti, la seconda montagna della Terra è stata tentata d’inverno più volte, sia dal versante pakistano sia da quello cinese. Ma né Denis Urubko, né Krszystof Wielicki né i loro compagni sono riusciti a toccare la cima. 

Il 16 gennaio 2021 tutto cambia. Mentre il sole tramonta sul Karakorum dieci alpinisti, tutti di nazionalità nepalese, superano gli ultimi pendii di neve della montagna. I primi attendono gli altri, poi i dieci arrivano sugli 8611 metri della vetta tutti insieme, cantando l’inno nazionale del Nepal 

La giornata è splendida, la temperatura si aggira sui 50° sottozero, il vento non supera i 30 chilometri all’ora. “L’impossibile è diventato realtà” twitta dalla cima l’alpinista più noto del gruppo, Nirmal Purja, in arte Nimsdai, che è salito con Mingma Davi Sherpa, Mingma Tenzi Sherpa, Geljen Sherpa, Pem Chiri Sherpa, Dawa Temba Sherpa, Mingma Gyalje Sherpa, Dawa Tenzing Sherpa, Sona Sherpa e Kilu Pemba Sherpa.

Quattro ore dopo, al termine di una pericolosa discesa al buio, i dieci tornano alle tende del campo 4. Un’altra giornata lungo le corde fisse li riporta al campo-base. La notizia della vittoria viene diffusa in tempo reale dalla cima, e fa subito il giro del mondo. 

Due giorni dopo Nimsdai racconta che, mentre gli altri sono saliti con respiratori e bombole, lui ne ha fatto a meno. “La decisione se salire con o senza ossigeno supplementare è stata difficile, ho corso un rischio calcolato. La fiducia in me stesso, la conoscenza del mio fisico e la mia esperienza sugli “ottomila” mi hanno permesso di tenere il passo degli altri” spiega Nims. 

L’inverno 2020-’21 è un momento particolare in tutto il mondo. In Europa e negli USA, dopo i lockdown di un anno prima, il Covid-19 costringe i governi a imporre altre chiusure più brevi. Le campagne di vaccinazione iniziano a cambiare le cose, ma la normalità è ancora molto lontana. 

In Nepal non c’è un sistema sanitario nazionale analogo a quello dei Paesi più ricchi, e le autorità di Kathmandu chiudono di fatto i confini per due anni. Ma questo, paradossalmente, aiuta i dieci uomini che salgono d’inverno il K2, e che lavorano per tre grandi agenzie, la Seven Summit Treks, la Imagine Nepal e la Elite Expeditions di Nirmal Purja. 

In un anno normale, a due mesi dalla partenza delle spedizioni commerciali all’Everest, i nove Sherpa e Nimsdai non avrebbero tempo di allontanarsi a lungo da Kathmandu. La chiusura del Nepal al turismo e all’alpinismo gli consente di farlo. La loro vittoria dà una mano al morale di trenta milioni di concittadini.   

Il blitz dei dieci nepalesi sfiora soltanto gli altri alpinisti che sono arrivati al campo-base del K2 a dicembre. Molti fanno parte di un team di Seven Summit Treks, la più grande agenzia nepalese. Il suo titolare, Chhang Dawa Sherpa, dirige le cose dal campo-base.


Una catena di tragedie dopo la vittoria nepalese

Una parte dei clienti ha scelto il pacchetto completo, con ossigeno, respiratori e l’assistenza degli Sherpa fino in vetta. Altri fanno parte di piccoli team semi-autonomi, come quella dell’altoatesina Tamara Lunger e del rumeno Alex Gavan, che hanno acquistato dall’agenzia l’avvicinamento e il ritorno, il vitto e alloggio al campo-base e l’uso delle corde fisse, ma che sul K2 si muovono autonomamente.

Altri alpinisti di grande capacità e con vari “ottomila” all’attivo, come lo spagnolo Sergi Mingote, il cileno Juan Pablo Mohr e l’islandese John Snorri si affidano con le stesse modalità all’agenzia pakistana Jasmine Expeditions. Con loro c’è Mohammed Alì Sadpara, uno dei protagonisti della prima invernale del Nanga Parbat. Nessuno, però, ha la determinazione e la velocità dei nepalesi. 

Nelle prime due settimane di gennaio, gli uomini della Elite Expeditions e di Imagine Nepal lavorano ad attrezzare la via. L’inserimento nel gruppo della prima invernale di Sona Sherpa è un segno di amicizia verso la Seven Summit Treks, e un omaggio al lavoro organizzativo di Chhang Dawa. 

“Il team di Nims e il mio sono diventati una sola spedizione, entrambi non eravamo più leader ma stavamo scalando per la nostra nazione e per la comunità alpinistica” scrive Mingma Gyelje. Questa collaborazione, insieme alla forza dei singoli e alla motivazione, porta i dieci nepalesi in vetta.

Per gli altri, il blitz dei nepalesi non cambia di molto la situazione. Il 16 gennaio il milanese Mattia Conte arriva ai 7052 metri del campo 3 e decide di scendere. Lo stesso giorno Sergi Mingote  si ferma per fare delle riprese mentre sta scendendo sullo Sperone Abruzzi, poi precipita all’improvviso dalla montagna. 

Secondo il suo compagno di spedizione Carlos Garranzo, che parla a nome della famiglia con il quotidiano El Confidencial, Sergi è stato colpito da una pietra più in basso dell’orlo del casco. Tamara Lunger, dalla base, vede “quel corpo che fa capriole sulla roccia” e “salta per aria”. Quando dal campo-base arriva Tomasz Rotar, alpinista e medico sloveno, non c’è più niente da fare.   

Il 18 gennaio, due giorni dopo la vittoria, i dieci nepalesi e lo staff dei campi-base di Nirmal Purja e di Mingma Gyelje se ne vanno. Per gli altri, una nuova finestra di bel tempo per tentare la vetta arriva nei primi giorni di febbraio. La via di salita è attrezzata, ma nei campi sullo Sperone Abruzzi, dove lo spazio è pochissimo, non ci sono tende per tutti.


Il problema è particolarmente grave al campo 3, 7200 metri. Il 5 febbraio, dopo una notte difficile, Tamara Lunger, che è già stata in cima al K2 in estate, rinuncia e scende lungo le corde fisse. A metà della discesa la raggiunge un’altra notizia tragica, il bulgaro Atanas Skatov, che aveva dieci “ottomila” all’attivo, è caduto ed è morto. La causa è stata probabilmente un errore nel passare da una corda fissa all’altra. 

Nella stessa giornata Muhammad Ali Sadpara, suo figlio Sajid Sadpara e l’islandese John Snorri partono per la vetta con respiratori e bombole. Si unisce a loro il cileno Juan Pablo Mohr, che sale senza ossigeno. Verso mezzogiorno, al campo-base, arriva via radio la voce del giovane Sajid. Racconta di essere salito con gli altri verso il Collo di Bottiglia, e di essere sceso intorno alle 10 per problemi con il regolatore dell’ossigeno. Sajid resta in attesa al campo 3 per venti ore, ma dall’alto non arriva nessuno. Poi scende verso il campo-base. L’indomani un elicottero militare pakistano sale a poca distanza dal K2, ma non trova tracce dei tre alpinisti dispersi.

Il mistero della loro fine si scioglierà parzialmente solo nell’estate successiva, quando l’ucraino Valentyn Sypavin, salendo verso la cima, trova i corpi di Mohr, Snorri e Sadpara ancora agganciati alle corde fisse. Nessuno ha respiratore e bombole, che si devono essere esaurite. Sappiamo che stavano scendendo, e che a ucciderli sono stati il freddo e la stanchezza. Non è possibile sapere, invece, se abbiano raggiunto o meno la cima. 

Due anni dopo la tragedia, nel febbraio 2024, Tamara Lunger confessa di aver amato profondamente Juan Pablo Mohr. “È stato dolorosissimo affrontare questa perdita nel momento in cui eravamo più felici, più innamorati” racconta a Silvia Senette del Corriere della Sera. “Avevamo fatto dei piani per il futuro, voleva portarmi in Cile per farmi conoscere la sua famiglia. Poi abbiamo tentato la scalata e lui non è più tornato. È stata la più grande sberla della mia vita. Mi chiedevo: perché dovevo essere proprio là? Perché mi dovevo innamorare di lui? Perché dovevo provare questo dolore?”. La domanda, come tante sul K2, rimane senza risposta. 

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