Trincea Mediobanca: la governance secondo Calta, manager longevi come gatti in tangenziale

Un’operazione giusta, con i partner sbagliati: è una delle tante sintesi sull’Ops di Montepaschi su Mediobanca circolata in questi giorni. Basata su molti possibili ragionamenti diversi, a volte anche molto tecnici: che il Montepaschi sia patrimonialmente troppo gracile per la sfida che ha lanciato; che il prezzo sia incongruo (per questo esistono i rilanci, eventualmente); […] L'articolo Trincea Mediobanca: la governance secondo Calta, manager longevi come gatti in tangenziale proviene da Economy Magazine.

Gen 28, 2025 - 10:24
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Trincea Mediobanca: la governance secondo Calta, manager longevi come gatti in tangenziale

Un’operazione giusta, con i partner sbagliati: è una delle tante sintesi sull’Ops di Montepaschi su Mediobanca circolata in questi giorni. Basata su molti possibili ragionamenti diversi, a volte anche molto tecnici: che il Montepaschi sia patrimonialmente troppo gracile per la sfida che ha lanciato; che il prezzo sia incongruo (per questo esistono i rilanci, eventualmente); che non ci siano sinergie.
Tutto discutibile, tutto opinabile.
Dall’altra parte c’è la storica inconsistenza dell’azionariato di riferimento sia di Mediobanca che della sua preziosissima partecipata Assicurazioni Generali, troppo piccola per essere al riparo da eventuali appetiti di gruppi ostili ma giganteschi, magari americani o tedeschi, di quelli ai quali opporre un “golden power” potrebbe risultare indigesto per qualsiasi governo, per nazionalista che fosse, pena rappresaglie insostenibili. E dunque è in questa mancanza della strategia preventiva che di Enrico Cuccia – maestro nel costruirsi un azionariato su misura, fatto da “debitori di riferimento (copyright Sergio Siglienti) – che va cercata la causa dello spazio politico e logico nel quale si sono incuneati i due vegliardi di quel che resta del capitalismo familiare italiano: Leonardo Del Vecchio, ora passato a migliori vita ed “ereditato” da otto soggetti non coesi; e Francesco Gaetano Caltagirone, tuttora vivo e vegeto – 82 anni da compiere tra un mese . La stoffa di quest’ultimo, ossia del vero “uomo forte” della situazione, storiche simpatie di destra oggi in apoteotica sintonia col governo Meloni, è oggetto di una ricca narrativa. Che meriterebbe disamine approfondite, per proiettare in un possibile futuro il metodo gestionale su una conglemerata bancassicurativa di respiro europeo come quella che mira a crea l’Opa del Montepaschi. Ma per non esagerare, meglio riportare la testimonianza resa poco tempo in una conversazione col sito “perfideinterviste.it” da Alessandro Barbano, ottimo giornalista che aveva resistito sei anni alla direzione del Mattino di Napoli (testata “minore” della panoplia caltagironiana. E che poi, proiettato al vertice della portaerei del gruppo, è durata 33 giorni, quasi come un gatto in tangenziale. Giusto a futura memoria…)

Barbano inizia citando un frammento di un racconto di uno dei più celebri direttori (per pochi giorni) avuti da Calta in quel giornale, Giulio Anselmi: “Quando Caltagirone arrivò in via del Tritone mi disse subito che aveva comprato il giornale perché voleva farlo con la testa sua, e non di certo con la mia…”

“Non pensa che sia umiliante accettare una direzione e sapere di non poter fare nulla di veramente libero?”, chiede l’intervistatore a Barbano. «Non esiste nulla di veramente libero, poiché la libertà è nel limite. Quando ho fatto il direttore del Mattino, per sei anni ho fatto il giornale che volevo, sempre. Ricordo che l’editore me lo faceva a volte notare, con quello che a me pareva un misto di fastidio e ammirazione. Mi diceva: perché lei, Barbano, è autonomo…».
Chi gliel’ha comunicata la cacciata?
«Azzurra, la figlia…».
Dicendole cosa?
«Che ero stato revocato dall’incarico, con due motivazioni formali, che sono oggetto, in questa fase, di disputa legale».
Aveva avuto sentore?
«No, perché una cosa del genere non si può neanche immaginare».
Si è sentito umiliato nell’essere stato brutalmente fatto fuori?
«Umiliato no, perché come professionista non mi definisce l’editore. Tanto più che dieci giorni prima della revoca, avevo avuto, a voto segreto, il gradimento dell’intera redazione: 85 voti a favore e uno solo contrario. Ho vissuto trentatré giorni di amore con colleghi straordinari, tutti desiderosi di fare i giornalisti. Che vuol dire andare a letto con la passione e svegliarsi con le idee, sapendo che c’è qualcuno al giornale che ti ascolta. Può capitare che ti dica che non vanno bene le tue idee, ma certamente non ti dirà che fanno schifo e, se non le accoglie, ti darà una motivazione contendibile, e perfino contestabile, affinché sia parte di un processo dialettico e trasformi la relazione orizzontale di una redazione nello spartito di vita di una comunità scientifica. Questo metodo dà a ciascuno la possibilità di essere parte di questo processo decisionale, e quindi protagonista».

Ma è vero che è stato il patron a farla fuori, e non Azzurra?
«Questo, francamente, non lo so, e non mi interessa neanche. Di certo l’accordo per venire al Messaggero l’ho raggiunto con lui».
Cosa intende per pressante? Mi faccia capire… Le telefonava spesso?
«A me personalmente, no. Probabilmente ci ha ripensato, nel senso che dopo aver visto il giornale che io stavo facendo si è ricreduto sull’opportunità che io potessi guidare il Messaggero, pur conoscendo la mia storia e quanto sia geloso della mia autonomia. Che non è un privilegio, ma una responsabilità nei confronti della mia redazione e dei lettori. Perché il giornale non è interamente di nessuno. Non è certamente del direttore, destinato a “passare” e a essere sostituito prima o poi, e neanche dell’editore che lo detiene per un arco temporale molto inferiore rispetto al tempo della lunga vita della testata. Non è, a ben pensarci, neanche del lettore, di quello che oggi lo compra. Ma è piuttosto patrimonio di una comunità che transita tra le generazioni. Appartiene ai lettori di oggi e a quelli di ieri, è un fuoco che arde un tempo di secoli. L’editore ha la responsabilità di mettere la legna, il direttore quella di regolare la fiamma e i lettori al suo calore si scaldano. Sapendo però che questa fiamma ardeva prima che nascessero e continuerà ad ardere quando loro non ci saranno più. Quindi un giornale non può essere considerato da nessuno come
roba propria. Quando io sono entrato al Mattino, il primo giorno il mio occhio è caduto sulla
fotografia della prima pagina del primo numero del giornale, anno milleottocentonovantadue, con gli editoriali di Matilde Serao e del compagno Edoardo Scarfoglio. Li deve leggere questi due articoli, per capire il loro livello di raffinatezza intellettuale e quanto alta fosse la tradizione di quel giornalismo. Per questo da quel giorno ho sentito l’anima di Matilde Serao appollaiata sulle mie spalle. Una responsabilità immane che ti suggerisce: stai attento, questa non è roba tua, ma è preziosissima e tu devi preservarla e tramandarla. Questo dovrebbe valere per tutti».

In una nota, Caltagirone comunica che: “Tra i diritti di un editore non c’è quello di indicare chi intervistare e come farlo. C’è invece quello di pretendere il reciproco rispetto degli impegni contrattuali…” Cosa voleva intendere questo messaggio sibillino?
«Quel messaggio nasce perché i giornali scrivono una sciocchezza: ovvero che fu la Meloni ad aver ottenuto il mio licenziamento dopo il mio diniego di fare un’intervista, non dal vivo, ma con domande e risposte scritte via mail. La notizia era priva di fondamento. Perché è vero che avevo chiesto un’intervista alla premier, è vero che lei mi aveva offerto di farla per iscritto, non avendo a ridosso delle elezioni tempo per un incontro, è vero che avevo declinato il suo invito, ma reciprocamente e di comune accordo avevamo convenuto di farla dopo le elezioni. Quindi la Meloni non c’entrava per niente. Però questo episodio mi ha fatto fare, poi, una riflessione: se io avessi accettato lo statuto di vittima, per così dire, e non avessi smentito, con un pizzico di furbizia, la falsa epurazione decisa da Palazzo Chigi, avrei goduto di un quarto di gloria mediatica che si deve a chi entra nella contrapposizione tra fascismo e antifascismo. Il direttore cacciato dalla premier postfascista sarebbe stata una ghiotta notizia. Ma siccome ho smentito subito la falsa versione che circolava, si sono spenti i riflettori sul caso.

La notizia vera, ovvero la cacciata dopo soli 33 giorni e senza un motivo plausibile del direttore del più importante giornale della Capitale, ad opera dell’imprenditore monopolista detentore del racconto di ciò che avviene in città, non interessava più a nessuno. Lo sconcerto della redazione e lo sciopero delle firme dei giornalisti del Messaggero, annunciati in un comunicato in cui si testimoniava che nei miei trentatré giorni di direzione si era lavorato in condizioni di serenità e rispetto reciproco, dopo anni di rapporti molto tesi, tutto questo non assumeva più nessuna rilevanza politica nel dibattito pubblico. A volte penso che siamo un paese davvero piccolo, che parla e s’identifica solo attraverso feticci. Come se la limitazione della libertà di stampa fosse solo dentro la contrapposizione tra fascisti che la vogliono sopprimere e antifascisti che la difendono. E non fosse invece un problema irrisolto del sistema dei poteri nel nostro Paese, che sono molto più diffusi e più articolati di quanto ci rappresentiamo».

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