Quando il diritto internazionale nella pratica viene trasformato nella legge del più forte
È sempre più evidente la confusione che calpesta la scienza giuridica tra sotterfugi, scappatoie, inottemperanze e addirittura sanzioni nei confronti dei giudici. L'articolo Quando il diritto internazionale nella pratica viene trasformato nella legge del più forte proviene da Globalist.it.
di Pierluigi Franco
Il principio base della certezza del diritto sembra essere ormai qualcosa di estremamente labile, caratterizzato da una sorta di latente indeterminatezza giuridica. E lo è soprattutto se ci si sposta nel campo di un ordinamento mutevole come quello del diritto internazionale, diritto fondato essenzialmente sui trattati, sulle consuetudini e sui principi giuridici generali. Non passa giorno senza che l’incertezza giuridica ormai dominante si intrecci con la politica, mostrando quanto ci si stia allontanando dal prezioso pensiero di Charles de Montesquieu.
Sul piano interno il nemico numero uno sembra ormai essere la Procura della Repubblica, vista come una sorta di perfida struttura degna di Tomas de Torquemada. Si dimentica così che l’articolo 112 della Costituzione impone al Pubblico ministero l’obbligo dell’azione penale qualora ci si trovi in presenza di una notizia di reato. Rispettare quell’articolo vuol dire essenzialmente garantire tre principi fondamentali: legalità, uguaglianza di fronte alla legge, indipendenza del Pubblico ministero. Non agire in caso di notitia criminis sarebbe semplicemente omissione di atti di ufficio, reato a sua volta incriminabile per l’articolo 328 del codice penale. E si dimentica anche che, se è vero che a coordinare l’inchiesta è il magistrato incaricato, a condurre le indagini e a raccogliere le prove sono sempre le Forze di Polizia spesso con lavoro lungo, paziente e faticoso. Ma a certa politica poco importa. Il magistrato resta il nemico da combattere o da piegare alla convenienza del momento. La storia è piena di esempi di magistrati asserviti al potere politico, basti ricordare il famigerato Andrej Vyšinskij, il Procuratore delle Grandi purghe asservito a Stalin, o i giudici del Tribunale Speciale di fascista memoria, cari a Mussolini.
Sul piano internazionale, poi, il diritto sembra quasi essere un ricordo. Tra conflitti, invasioni, stragi, sottomissioni, avvertimenti, violenze e intimidazioni di vario genere provenienti da ogni parte, il diritto internazionale annaspa. Ognuno prova a interpretarlo a proprio vantaggio, in funzione della forza di cui dispone.
Il caso più recente e più eclatante è quanto sta avvenendo con la Corte penale internazionale (Cpi), istituzione chiamata a giudicare soggetti che si rendano responsabili di crimini di guerra, genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di aggressione. Nata con lo Statuto di Roma del 1998 e con l’adesione di 125 Stati, la Cpi ha cominciato la propria attività nel 2002. Ma la sua notorietà è arrivata nel marzo 2023 quando ha spiccato un mandato di arresto contro Vladimir Putin per crimini di guerra in Ucraina ottenendo il plauso del mondo occidentale con in testa gli Stati Uniti, che pure non aderiscono alla Cpi. Decisamente più fredda la reazione nel novembre 2024 quando a incappare nel mandato di arresto è stato Benjamin Netanyahu, sia pure in compagnia del terrorista Mohamed Deif, capo del braccio armato di Hamas. Sia nel caso di Putin sia in quello di Netanyahu la Corte è potuta intervenire perché entrambi hanno operato in territori che aderiscono alla Cpi (Ucraina e Territorio palestinese), anche se il Governo israeliano contesta il fatto che la Palestina possa essere considerata uno Stato.
Ma non bastano le contestazioni. Dopo aver salutato con favore l’incriminazione di Putin, gli Stati Uniti hanno cambiato completamente il proprio punto di vista dopo quella di Netanyahu arrivando addirittura a emettere sanzioni contro la Corte penale internazionale. E non per una bizzarria di Donald Trump, come qualcuno potrebbe pensare, poiché la norma definita Illegitimate Court Counteraction Act era stata elaborata già agli inizi di dicembre 2024 ed è stata approvata il 10 gennaio 2025, quindi sotto l’amministrazione di Joe Biden. In forza della nuova norma statunitense, sarà soggetto a sanzioni ogni cittadino straniero che “indaghi, arresti, detenga o persegua cittadini statunitensi o di Paesi alleati”. Anche se ciò significa che i cittadini americani diventano intoccabili per chiunque, il riferimento specifico è senz’altro rivolto alla Cpi i cui giudici potranno ora subire il congelamento dei conti personali e il divieto di ingresso negli Usa. Una decisione senza precedenti, subito stigmatizzata dalla stessa Corte penale internazionale per la quale si tratta di una norma che mina la sua indipendenza e “priva della giustizia e della speranza milioni di vittime di atrocità internazionali”.
D’altra parte il diritto internazionale è stato accantonato anche a settembre 2024 quando Putin si è recato in visita in Mongolia, Paese che aderisce alla Cpi e avrebbe dovuto arrestate il Presidente russo. Ma l’arresto non c’è stato, evidenziando la debolezza di un sistema giuridico alla continua ricerca di un principio ordinatorio.
La Cpi, come è facile immaginare, non piace neppure ai Talebani che contestano i mandati d’arresto richiesti il 23 gennaio dal Procuratore Karim Khan contro il loro capo supremo, Hibatullah Akhundzada, e il capo della Giustizia, Abdul Hakim Haqqani. Entrambi sono accusati di crimini contro l’umanità per la persecuzione delle donne in Afghanistan. Ma per il ministero degli Esteri di Kabul si tratta di mandati che “non hanno alcuna base giuridica, sono basati su doppi standard e sono motivati politicamente”.
E che dire, tornando all’Italia, di ciò che è accaduto nella vicenda del criminale libico Najeem Osema Almasri Habish? Una storia paradossale cominciata domenica 19 gennaio quando Almasri, comandante della polizia giudiziaria libica, è stato arrestato a Torino dalla Digos su mandato di arresto della Cpi. Le accuse nei confronti del libico sono pesanti e spaziano dalla tortura all’omicidio nei confronti di migranti, fino alla violenza sessuale su bambini. Un grattacapo enorme per il Governo. Infatti l’Italia aderisce alla Cpi e, in quanto tale, è tenuta a consegnare e arrestare i ricercati. Ma in questo caso ci sono anche in gioco i “buoni rapporti” con la Libia, con interessi che spaziano dai migranti all’energia, pur sapendo bene che nei confronti di Almasri grava il peso di aver compiuto gravi crimini contro l’umanità nel suo ruolo di direttore del carcere di Mitiga, vicino Tripoli.
Sul tavolo del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quel dossier sembra pesare come piombo, tanto che il Ministero fa sapere che si tratta di un “complesso carteggio” per valutare la trasmissione della richiesta della Cpi al Procuratore generale di Roma, come previsto dalla legge. A disciplinare la fattispecie è la legge numero 237 del 20 dicembre 2012 che titola “Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale”. Secondo la normativa compete al ministro della Giustizia dare seguito alle richieste della Corte, assicurando che “l’esecuzione avvenga in tempi rapidi e con le modalità dovute”. L’unica scappatoia possibile viene dall’articolo 5 per il quale se il ministro “abbia motivo di ritenere che la consegna di determinati atti o documenti ovvero l’espletamento di attività di indagine o di acquisizione delle prove possano compromettere la sicurezza nazionale, la trasmissione dei documenti ovvero l’espletamento delle predette attività sono sospesi”. Ma quale sicurezza nazionale? Difficile riuscire a comprenderlo.
In ogni caso devono essere state ore difficili per il ministro, probabilmente circondato da esperti in cavilli. Alla fine, dal cilindro pseudo-giuridico, viene fuori un’ordinanza della Corte d’appello di Roma che rende noto un errore procedurale, poiché l’arresto non era stato “preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia” fatto per il quale il Procuratore generale chiede che la Corte “dichiari l’irritualità dell’arresto”. Difficile immaginare gli agenti delle Forze dell’ordine che telefonano al ministro prima di arrestare qualcuno, rischiando magari di lasciarlo fuggire. In ogni caso per la Corte, poiché “non ricorrono le condizioni per la convalida”, ne consegue la “immediata scarcerazione”. A completare il quadro c’è il pronto rimpatrio di Almasri con un volo di Stato, secondo qualche malpensante con tanto di scuse per l’offesa arrecatagli dalla Polizia torinese. La beffa e la spesa di viaggio, ovviamente a carico del contribuente italiano. Se non fosse per la gravità dell’argomento, verrebbe da pensare di essere in un mondo dominato dal manzoniano Azzecca-garbugli e dal siloniano Don Circostanza.
D’altra parte poco importa l’indignazione ufficiale della Corte penale internazionale che chiede spiegazioni all’Italia per aver scarcerato Almasri “senza preavviso o consultazione”, ricordando che è dovere di tutti gli Stati aderenti “cooperare pienamente con la Corte nelle sue indagini e azioni penali per i crimini”. E fanno quasi tenerezza le imbarazzate parole del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, durante il question time al Senato: Almasri è stato “rimpatriato a Tripoli, per urgenti ragioni di sicurezza, con mio provvedimento di espulsione, vista la pericolosità del soggetto” e per il fatto che dal momento del rilascio “era a piede libero in Italia”. Come dire, sappiamo bene di aver rimesso in libertà un criminale della peggior specie.
Tutto, quindi, sembra dimostrare la sempre più evidente crisi di un sistema giuridico internazionale frammentato e disorganico. Ma va detto che proprio questa fragilità fa comodo alla politica che, in tal modo, riesce a portare a proprio vantaggio l’incertezza giuridica caratterizzata dalla mancata determinazione dei confini tra sovranità statuale e diritto internazionale. È facile immaginare che, in questo quadro, c’è la tendenza a piegare il diritto internazionale alle proprie convenienze nazionali soprattutto se si è più forti. Lo dimostrano le sentenze e le attività dei vari Tribunali internazionali che, nel corso degli anni, sono state elogiate e appoggiate quando si trattava di inquisire i presunti “nemici” e dileggiate e intralciate quando riguardavano i presunti “amici”.
Per questo la scienza giuridica fa fatica a trovare e garantire una autentica certezza del diritto internazionale pubblico che resta sostanzialmente privo di organicità. Di certo non è un problema nuovo se si pensa al concetto di “stato di eccezione” tanto caro alla filosofia del diritto di Carl Schmitt che rispolverava anche l’antica differenza tra legalità e legittimità, quindi tra esercizio del potere sovrano e valore etico dell’ordinamento politico. Un approccio che sembra ben rispondere a ciò che sta accadendo oggi nel mondo. Sembra invece allontanarsi la possibilità di avvicinare, e addirittura far svanire, i confini del diritto internazionale e quello nazionale teorizzata da Hans Kelsen per il quale l’evoluzione dell’ordinamento internazionale non può prescindere dall’istituzione di un sistema internazionale di giustizia. E proprio Kelsen sembra più che mai attuale quando, nel suo trattato “La pace attraverso il diritto”, afferma che “uno dei mezzi più efficaci per prevenire la guerra e per garantire la pace internazionale è l’approvazione di regole che stabiliscano la responsabilità individuale delle persone le quali, come membri del governo, hanno violato il diritto internazionale ricorrendo alla guerra o provocando la guerra”.
Ma la politica appare sempre più distante dalla scienza giuridica che anzi, se non è piegata ai suoi voleri, ne diventa nemica. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
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