L’Ue fa gli interessi della Germania con il Green Deal?
Il Green deal nasce in sostanza per scaricare sull’Unione i costi della ristrutturazione industriale tedesca. Esso rappresenta il mezzo attraverso cui il blocco corporativo tedesco (politico-finanziario-industriale) intende riconvertire il proprio apparato produttivo. Estratto dal libro di Sergio Giraldo "L’impero minore. Crisi industriale e crisi democratica nell’Unione europea", edito da Diarkos
Il Green deal nasce in sostanza per scaricare sull’Unione i costi della ristrutturazione industriale tedesca. Esso rappresenta il mezzo attraverso cui il blocco corporativo tedesco (politico-finanziario-industriale) intende riconvertire il proprio apparato produttivo. Estratto dal libro di Sergio Giraldo “L’impero minore. Crisi industriale e crisi democratica nell’Unione europea”, edito da Diarkos
Nonostante i proclami, non esiste un interesse comune europeo, ma solo il tornaconto di Berlino, veicolato attraverso le sovrastrutture di Bruxelles. La mancanza di un vertice forte autenticamente sovrano (imperiale, appunto) è intenzionale, poiché il vuoto al vertice viene riempito dal presidio tedesco sui processi decisionali.
Vi sono elementi nuovi che stanno contribuendo al precipitare della crisi: gli shock degli ultimi anni. Il primo shock, autoinflitto, è il cosiddetto Green deal. Lanciato dalla Commissione europea sul finire del 2019, rappresenta un ambizioso programma di riconversione industriale, che ha come filo conduttore l’energia. Di questa nouvelle vague industriale fanno parte le fonti rinnovabili, l’idrogeno, l’acciaio verde, sistemi di riscaldamento elettrici e, naturalmente, l’automobile elettrica a batteria. Il Green deal rappresenta lo strumento che la Germania, attraverso la sovrastruttura europea, ha voluto imporre per ristrutturare la propria industria, in crisi di redditività e in cerca di nuovi mercati.
Il Green deal nasce in sostanza per scaricare sull’Unione i costi della ristrutturazione industriale tedesca. Esso rappresenta il mezzo attraverso cui il blocco corporativo tedesco (politico-finanziario-industriale) intende riconvertire il proprio apparato produttivo. In puro stile ordoliberale, l’idea del Green deal è quella di imporre un quadro regolatorio che obblighi ad un salto tecnologico che i mercati non chiedono, ma che si sposa perfettamente con l’onda alzata dagli accordi di Parigi sul clima. Vista la situazione alle soglie del 2020, per l’industria tedesca era necessario creare un mercato ex novo, in cui gli investimenti nel settore industriale (automobile in primis) potessero tornare a fornire ritorni interessanti in prospettiva.
Non è un caso che i settori economici più toccati dal Green deal siano quelli più maturi come automobile, edilizia e infrastrutture. Settori tangibili su cui si è basato lo sviluppo economico del secondo dopoguerra e che sono stati alla base del benessere generato in Europa fino all’inizio degli anni ‘90 del Novecento.
Il secondo elemento di accelerazione, anch’esso in gran parte autoinflitto, è rappresentato dalla crisi energetica che si è verificata in Europa a partire dal 2021 e che è esplosa, letteralmente, nel 2022. Lo squilibrio sul mercato europeo del gas iniziato nella primavera del 2021 ha aggravato la de-industrializzazione del continente, oltre a causare un’ondata inflattiva alla quale la Banca Centrale Europa, con riflesso pavloviano, ha reagito alzando i tassi di interesse.
Ciò che chiamiamo qui impero minore è l’involucro dentro cui si muove la diplomazia economica tedesca. Una diplomazia che si è mossa negli ultimi trent’anni secondo due direttrici. La prima è l’espansione verso l’Est europeo, allargando l’Unione e la moneta unica ai paesi dell’ex Patto di Varsavia, nonché allacciando serrati rapporti d’affari con la Russia. La seconda linea di allargamento della sfera di influenza è l’intreccio economico sempre più profondo con la Cina. Il tutto con l’obiettivo di conquistare i mercati mondiali.
Ma le linee di espansione dell’influenza germanica sono entrate in collisione in maniera palese con quelle statunitensi.
Inoltre, il modello di sviluppo dell’impero minore è andato in crisi, come era prevedibile. Le politiche di austerità imposte all’interno del mercato unico stanno causando l’aggravamento della crisi industriale europea. L’Unione europea è un mercato “fortemente competitivo”, il che significa che tra stati membri vi è competizione. Una competizione condotta a base di contenimento del costo del lavoro, come certificato da Mario Draghi nel discorso di La Hulpe dell’aprile 2024. Evidentemente, a lungo andare la compressione del potere d’acquisto rende il mercato interno non più sufficiente ad assorbire il surplus tedesco di produzione, e così inizia la crisi. La competizione sui costi del lavoro, con investimenti bassi, ha depresso la produttività, che infatti in Europa è cresciuta pochissimo rispetto agli Stati Uniti. L’austerità imperiale sta annichilendo il potere d’acquisto degli europei. Questo ferisce anche la Germania, che realizza più della metà del suo surplus nel mercato interno. Il piano della Germania di occupare i mercati e al contempo di imporre l’austerità è dunque in sé contraddittorio e sta mostrando la corda.
La crisi dell’Europa, e del mondo Occidentale, è una crisi delle élites, che hanno perso il contatto con la realtà perché si sono arroccate nell’agio dello strapotere globale. Quando l’ascensore sociale ha smesso di funzionare, perché scassato dalle stesse élite, si è perso quel meccanismo di ricambio indispensabile al sano rinnovamento della dirigenza culturale, politica, economica. La manutenzione dell’ascensore sociale è stata affidata alla sinistra europea, che ha molto lavorato per evitare che questo funzionasse di nuovo.
L’impero minore trae la sua forza dal conformismo. Se esso si è affermato sino a questo punto, sino al limite dell’autodistruzione, è perché il senso critico è stato sepolto sotto l’untuosa retorica dominante. Mai come oggi serve ritrovare la sfrontatezza per dire, a voce alta, che il re, anzi, l’imperatore, è nudo.