Le Cerimonie
Si celebrano, di questi tempi, le inaugurazioni dell’anno giudiziario presso la Corte di Cassazione e in tutte le Corti d’Appello. Trattasi, usualmente, di cerimonie noiose e di nessun interesse, corrose dal […]
Si celebrano, di questi tempi, le inaugurazioni dell’anno giudiziario presso la Corte di Cassazione e in tutte le Corti d’Appello.
Trattasi, usualmente, di cerimonie noiose e di nessun interesse, corrose dal tempo, passerelle per esponenti giudiziari, forensi, governativi ecc. in cerca di brevi momenti di notorietà e nelle quali si apprendono informazioni sull’andamento della giustizia già reperibili, per chi fosse interessato, sui vari siti specializzati
Ma quest’anno, grazie all’infaticabile produzione legislativa, in tema di giustizia, della maggioranza di governo, abbiamo un nuovo, importante argomento che darà vitalità a questi logori riti: la separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e giudicanti.
A tale proposito, possono, con assoluta certezza, affermarsi alcune cose. La prima è che tale separazione non produrrà alcun cambiamento migliorativo rispetto a quel cadavere inconsapevole di sé che ormai il è processo penale, divenuto un colabrodo a seguito delle insistite riforme “garantiste” che si sono susseguite negli ultimi lustri ad opera di tutti i governi, di qualsiasi parte politica essi fossero. E non interesserà i magistrati atteso che, come è ampiamente noto, i passaggi di funzioni tra i due ambiti si contano, ogni anno, sulle dita di due mani. Ma comporterà, inevitabilmente, un indebolimento dell’autonomia di un potere dello Stato la cui indipendenza sarà fortemente limitata anche dall’introduzione di un’alta corte disciplinare posta al di fuori del CSM.
La seconda cosa è che tale riforma nasce sotto il segno del rancore: a) quello di alcune parti della destra che hanno esultato, in sede di prima approvazione, ricordando, con straripante commozione come si fosse inverata l’aspirazione del mai troppo compianto Berlusconi; b) quello del fronte degli avvocati penalisti avvolti in un complesso di inferiorità apparentemente inguaribile a dispetto delle più che comprovate dimostrazioni di indipendenza della magistratura giudicante. Al riguardo si segnala che il 40% circa dei giudizi si conclude con l’assoluzione degli imputati. Nasce il sospetto che il desiderio che muove questa importante categoria di soggetti sia, allora, quello che non vi siano processi, se non, ovviamente, quelli a carico dei soggetti più disagiati. Desiderio alquanto masochistico attesa la conseguente rarefazione che ne deriverebbe delle laute parcelle che gli stessi abitualmente richiedono a chi può permettersi le loro prestazioni.
Ma, al di là di queste amenità, tale modifica costituzionale offre lo spunto per un duplice ordine di considerazioni di più vasto respiro.
La prima considerazione, più specifica, attiene all’idea di giustizia penale. Complice anche un’impostazione errata del codice di procedura del 1988, si sono create le premesse culturali per ritenere che le iniziative dei pubblici ministeri siano equiparabili a quelle di una qualsiasi altra parte del processo. Si è generata, fra P.M. ed Avvocatura, un’idea del giudizio penale come terreno di tenzone fra opposte visioni, una battaglia che deve portare a un vincitore e a un vinto. Sottoprodotto di un’idea di Stato minimo pappagallescamente copiata da altri sistemi giuridici di cultura e storia completamente diverse. Il processo penale è diventato così un luogo dove si riproducono differenze di ceto e di censo e con una tecnicalità, a volte cervellotica, che lo rende un luogo costosissimo per gli imputati e per lo stesso Stato.
La seconda considerazione riguarda un tema più vasto e attiene al senso della convivenza democratica in questo torno di tempo. Nell’epoca dell’individualismo assoluto, del collasso degli strumenti di coesione sociali, la religione in primis, non è più possibile, al di là di momenti emotivi legati a fatti eclatanti, riconoscersi nell’agire comunitario. Scompare, da ogni luogo dove ancora un tempo poteva esistere, qualsiasi idea di carismaticità, cosa senza la quale la stessa democrazia scema a mera pratica elettoralistica e che la rende priva di convinta adesione. A scanso di equivoci, questa carismaticità nulla ha a che fare con le varie declinazioni di leadership che oggi tanto entusiasmano circoli mediatici e opinionisti. E’ invece la necessità di figure intese come sintesi di momenti di partecipazione, di luoghi di tensione ideale. Siamo, oggi, giunti all’esito di un percorso che ci ha condotto dai segretari di partito ai leader, dalle sintesi di aggregati coesi e consapevoli ai capi di masse unite da umori volatili e largamente inconsapevoli.
Facendo seguito, ad esempio, a quanto già successo ai medici, ai professori e agli stessi avvocati, anche per i giudici scolora e scompare ogni lontano ricordo della loro origine sacerdotale e si assiste alla trasformazione di essi in un modesto funzionariato chiamato a prestazioni routinarie, inoffensive per la riproduzione del sistema neoliberista oggi imperante. Funzionariato senza pretese di autonomia e a cui si chiede, a piè sospinto, di essere sempre più “efficiente” ma sul cui cammino si immettono continuamente riforme, regole e formalismi che ne compromettono l’attività.
In conclusione, la parabola della giustizia è la medesima dei valori contenuti nella carta costituzionale. Valori che sono valsi molto per le generazioni che ci hanno preceduto e, in parte, anche per noi. Ma, di questo passo, non per quelle che verranno.
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