«Le big della finanza escono dalle alleanze per il clima, ma non è detto che smettano di investire nella transizione»

Cosa comporta la fuga di banche e asset manager statunitensi dalle coalizioni per il clima? Risponde Anna Fasano, presidente di Banca Etica L'articolo «Le big della finanza escono dalle alleanze per il clima, ma non è detto che smettano di investire nella transizione» proviene da Valori.

Gen 27, 2025 - 13:42
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«Le big della finanza escono dalle alleanze per il clima, ma non è detto che smettano di investire nella transizione»

Donald Trump torna alla Casa Bianca. Le maggiori banche statunitensi e il più grande asset manager al mondo, BlackRock, scappano dalle rispettive coalizioni per il clima. La Federal Reserve si sfila dal Network for Greening the Financial System, la rete di banche centrali e di regolatori incaricati di prendere in considerazione i rischi climatici. Leggendo la cronaca sembra un tracollo su tutti i fronti, dopo anni spesi a tentare di convincere i grandi nomi della finanza a farsi carico delle proprie responsabilità sul pianeta e sulle persone. Ma il quadro è davvero così cupo o possiamo attenderci ancora dei segnali in controtendenza, magari dall’Europa? Ne parliamo con chi da sempre mette al centro gli aspetti ambientali, sociali e di governance (Esg): Banca Etica, per voce della sua presidente Anna Fasano.

Siamo di fronte alla fine di un movimento? Le iniziative dei grandi attori finanziari per il net zero – o per la sostenibilità intesa in senso più vasto – erano un trend destinato a essere rimpiazzato da altri trend? 

È la conferma di qualcosa che sapevamo già: non ci sono elementi di novità, se non la velocità con cui alcune scelte sono state rese esecutive. Vuol dire che alcuni soggetti, che prima erano guidati da un posizionamento culturale o politico ma non l’avevano scelto strategicamente, faranno un passo indietro. Per BlackRock questo significa uscire da alcune alleanze per evitare cause legali, non necessariamente disinvestire. Questo per motivi di mercato: le grosse aziende (anche finanziarie) che hanno investito nella transizione ecologica non intendono tornare indietro.

Certo è che, trovandosi al di fuori di contesti che obbligavano a misurare e rendicontare determinati obiettivi, i percorsi potrebbero diventare più opachi. D’ora in poi, più che le adesioni si misureranno le azioni, cioè gli investimenti, che a mio parere non vedranno una grande inversione di tendenza. Sapendo che per un soggetto come BlackRock lo 0,86% di investimenti sostenibili è residuale ma, in termini di mercato, è rilevante.

Mi viene da dire che sulla parte ambientale, la E dell’acronimo Esg, il percorso fatto è talmente avanzato che – nonostante il pessimo messaggio culturale – strategicamente una parte delle aziende continuerà sulla strada intrapresa. Al contrario, quelle che non l’avevano fatto finora si sentiranno legittimate ad agire diversamente.

Perché questo discorso vale solo per la E di environment, e non per la S di social e la G di governance?

Perché sul tema ambientale ci sono stati contesti internazionali (penso anche alle Conferenze sul clima) che, su spinta dell’emergenza, hanno accompagnato, misurato e definito alcuni percorsi, a livello normativo ed economico-finanziario. Al contrario, sui temi sociali e di governance ci sono stati passi avanti isolati ma non una crescita di modello.

Tutti pongono l’accento sull’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi; a me preoccupa più che altro che le politiche dei governi appena rinnovati stiano aumentando le disuguaglianze. Un tema che non è pienamente compreso, al di là di riferimenti isolati ai diritti umani o dei lavoratori. In gioco c’è una questione di analisi, condivisione di dati e scientificità. Sul clima abbiamo gli strumenti per valutare l’impatto di una determinata scelta sull’obiettivo degli 1,5 gradi di riscaldamento globale, mentre sull’aspetto sociale le metodologie sono molteplici e le agenzie di rating non restituiscono indicatori condivisi.

Tornando alle coalizioni degli attori finanziari, possiamo dunque dire che l’uscita di questi soggetti faccia venire meno l’impegno politico ma ci permette di ragionare sui numeri – almeno per il clima –, ambito per cui abbiamo più strumenti?

Assolutamente sì, visto che le serie storiche ci dicono che le performance degli investimenti sostenibili sul medio periodo sono eccellenti. Chi vuole misurare il rapporto tra rischio e rendimento nel lungo periodo può fare delle scelte. Lo può fare il soggetto macro, Blackrock, ma lo può fare anche il soggetto micro, il risparmiatore.

Guardando al medio periodo, c’è il tema degli stranded assets, cioè beni destinati a svalutarsi per via della crisi climatica. Se anche la Federal Reserve si disinteressa di questi rischi, rischiamo conseguenze in termini di stabilità finanziaria?

Quando c’è stata questa presa di coscienza sulla necessità di una valutazione economico-finanziaria dei rischi Esg, si è venuta a costruire una disciplina – anche europea – che rischia di rivelarsi controproducente. Inizialmente le normative sui rischi climatici volevano proteggere gli asset, non agevolare la transizione. Ma questa lettura è totalmente contraria alla teoria del cambiamento che, invece, caratterizza chi interpreta la sostenibilità come scelta strategica. A parte questo, la normativa obbliga a strutturare piani triennali in cui accantonare risorse per i rischi climatici. In pratica, stabilisce che ci sono soggetti più rischiosi che necessitano di accantonamenti maggiori: finanziarli, dunque, è meno conveniente. Ma questo non vuol dire che comportino perdite: comportano una diversa gestione degli accantonamenti. Per un grande colosso bancario, l’influenza è minima.

Anche in questo caso, il tema ambientale la fa da padrone perché gli eventi meteo estremi hanno impatti rilevanti sull’economia e sulla finanza. L’uscita da un sistema che rischiava di rendere tutto amministrativo-burocratico e poco strategico-funzionale non deve far venire meno la consapevolezza della necessità di misurare quegli impatti sui portafogli. Anche in assenza di obiettivi Esg formalizzati e condivisi da raggiungere, questi sistemi sono consolidati e hanno performato bene. Non ritengo immediata una totale retromarcia: quella sì potrebbe causare instabilità. Ci sarà chi agisce così con un orizzonte di breve periodo, puramente speculativo. Ma è probabile che i grandi poteri economici, che pure spesso critichiamo, si facciano sentire: è nel loro interesse non rimettere tutto in discussione.

Questo orientamento politico e culturale così diverso potrà avere un impatto su chi da sempre fa fare finanza etica e sostenibile, come le banche aderenti alle reti Febea e Gabv?

I piani sono due: quello di mercato e quello istituzionale. Partiamo dal primo: scomparirà un mercato che noi abbiamo contribuito a creare e che altri soggetti più grandi hanno fatto crescere? Non penso, poiché noi continueremo a coltivarlo e, avendo ora un megafono più ampio, continueremo ad alimentare una consapevolezza popolare che oramai non si può cancellare. Proseguiremo questo lavoro, talvolta in solitaria, talvolta insieme a partner che hanno strategicamente scelto questi percorsi, e confidando nel fatto che a comprenderli siano anche istituti bancari di dimensioni più rilevanti. Forse ora il cielo è un po’ più buio, ma nel buio è più facile identificare chi è mosso realmente e genuinamente da obiettivi di sostenibilità. Vedo più “grigia” la parte istituzionale perché, se le istituzioni rinunciano al ruolo di delineare e alimentare un percorso, avremo a disposizione meno strumenti politici e di sistema.

Parliamo proprio di Europa: in questo momento ha la forza politica per fare da contrappeso agli orientamenti statunitensi?

Questa è la vera opportunità dell’Europa. Vuole inseguire un’America che va a deprimere il tema ambientale e aumentare le disuguaglianze? Oppure vuole costruire la propria competitività – tema che Ursula von der Leyen ha portato alla luce riprendendo il documento Draghi – e costruirla sulla qualità e sull’eccellenza? In questo secondo caso, l’Unione europea avrà uno spiraglio per essere un interlocutore credibile per il sistema globale.

L’Unione europea sembra però voler alleggerire alcune normative sulla sostenibilità…

Sul tema della tassonomia e della due diligence una riforma è necessaria, perché oggi c’è una sovrabbondanza di norme che talvolta si sovrappongono lasciando invece dei vuoti su alcuni temi critici. Se questa nuova norma quadro va nella direzione della proporzionalità e della chiarezza, può aiutare a snellire le regole concentrandosi sugli elementi centrali. L’alternativa è quella di alleggerire tutto per renderlo una fatica inutile: tante carte da compilare per poi muoversi tutti singolarmente.

Sarà fattibile? Lo scenario politico non aiuta, perché è frammentato tra Paesi affaticati e ripiegati su sé stessi. Se ci sarà l’intelligenza e la capacità diplomatica di mettere al centro la sostenibilità ambientale e la riduzione delle disuguaglianze, allora – a mio avviso – la partita è aperta. Io confido nel fatto che, in Europa, queste intelligenze ci siano. Soprattutto ascoltando la società civile che si impegna da tanto e ha esperienza e competenza. Tutto questo percorso non è stato costruito in un giorno e non si potrà distruggere in un giorno.

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