I buoni propositi non funzionano perché l’inverno è il momento per rallentare
Gennaio non è ancora finito che già sembra che la gran parte di noi abbia lasciato fallire tutti i propri buoni propositi: mangiare meglio, bere meno, andare in palestra, utilizzare meno i social, dormire di più. Le ragioni sono molte, ma tra queste ce n’è una sicuramente trascurata: siamo animali e, in quanto tali, non possiamo sottrarci completamente al ritmo della natura: l’inverno ci chiede di accogliere la lentezza nelle nostre vite. L'articolo I buoni propositi non funzionano perché l’inverno è il momento per rallentare proviene da THE VISION.
Gennaio non è ancora finito – è notoriamente il mese più lungo di tutti – che già sembra che la gran parte di noi abbia lasciato fallire tutti i propri buoni propositi, formulati sull’onda dell’entusiasmo foraggiato dai bicchieri di troppo che costellano il periodo tra il pranzo di Natale e la notte di Capodanno. Mangiare meno e meglio, bere meno – dopo le feste sarebbe in effetti una buona idea, non a caso esiste il Dry January, la campagna che invita a trascorrere un mese senza bere alcolici –, andare finalmente in palestra (e non fermarsi all’iscrizione) e in generale essere più attivi, dormire meglio e perdere meno tempo sullo smartphone sono tra i propositi più diffusi – stando alle analisi sugli hashtag di TikTok e al senso comune – per l’anno nuovo: una lista traboccante di ottimismo e (spesso) ingenuità che personalmente quest’anno ho evitato di fare, avendo ormai capito – dopo anni di fallimenti – che, se non riesco a rispettare gli obiettivi per la giornata di domani, di certo non riuscirò con quelli per l’intero anno. Non ce l’ho necessariamente con gli obiettivi, ma se meno del 10% delle persone riesce a mantenere le buone intenzioni di gennaio deve esserci un motivo.
Le ragioni sono molte, ma tra queste ce n’è una sicuramente trascurata: siamo animali e, in quanto tali, non possiamo sottrarci completamente al ritmo della natura. Cioè, se è vero che per la maggior parte di noi la vita quotidiana si svolge in città rumorose e che spendiamo le nostre ore per lo più al lavoro, siamo pur sempre mammiferi. E, con la natura che rallenta, molte specie animali in inverno vanno in letargo e le altre, in molti casi, riducono la loro attività, in attesa di momenti più prosperi in cui tornare a esplorare il territorio, preparare il nido e cercare un compagno per riprodursi. Alcuni studi scientifici, infatti, dimostrano che durante i mesi invernali si ha una naturale tendenza a dormire di più e, in generale, a ritirarsi nella calma del divano o del letto più a lungo. Non è un caso, ma un effetto della minore quantità di luce naturale e del freddo, così come degli sbalzi freddo-caldo che caratterizzano gli spostamenti quotidiani tra la casa e l’ufficio passando per le strade umide. A questo si aggiungono, poi, i cibi tendenzialmente più pesanti e altri fattori che possono variare da persona a persona. Almeno in parte, quindi, è naturale che in questi mesi siamo più pigri e abbiamo più sonno. Purtroppo queste tendenze si scontrano con ritmi lavorativi e sociali che non conoscono le variazioni stagionali: per questo ci affanniamo a opporci al naturale rallentamento delle cose, per ritornare, dopo le feste, a costringerci nella definizione di cittadini funzionanti, cioè produttivi, e negli obblighi più o meno auto-imposti a cui fatichiamo ad adattarci.
Così, a malapena riposti i decori natalizi, ripiombiamo nella routine in cui, costantemente esausti, trattiamo le nostre giornate come se avessimo da mandare avanti un’azienda e non la nostra vita: obiettivo dopo obiettivo. I cambiamenti di stile di vita che richiedono molti dei buoni propositi – sempre ottimisticamente irrealistici, dall’imparare il giapponese a correre una maratona, quando fino al 31 dicembre le ultime forze della giornata ci servivano solo per trascinarci dal divano al letto, dopo l’ennesima serie Netflix – non possono avvenire se non sono supportati da un cambiamento interiore, cosa che di rado succede nel tempo di un rintocco della mezzanotte. È difficile cambiare abitudini, specialmente se ciò che ci spinge non è sentito nel profondo, ma imposto da un condizionamento sociale, come possono essere alcune insostenibili routine di allenamento. Proprio questo aspetto – l’assenza di una vera motivazione – potrebbe essere uno dei motivi per cui i buoni propositi per l’anno nuovo falliscono miseramente nel giro di qualche settimana, ed è tanto più difficile imporsi di alzarsi prima al mattino o di allungare la strada dopo il lavoro fino alla palestra, se fuori è buio e ci viene addosso tutto il sonno del mondo. Gennaio, anzi, sarebbe addirittura il momento più difficile per decidere di cambiare, secondo la neuroscienziata Judy Grisel, docente di psicologia alla Bucknell University, in Pennsylvania. Inoltre, c’è il fatto che il nostro stesso funzionamento si oppone ai cambiamenti: adottare una nuova abitudine, infatti, richiede un certo sforzo, prima che questa sia percepita come una necessità che ci fa stare bene, per esempio, o che diventi un automatismo; e il nostro cervello, per ragioni evolutive, fa di tutto per ridurre gli sforzi, per risparmiare energie.
Viene allora da chiedersi cosa ci spinga, intimamente, davvero, a stilare la lista degli obiettivi dell’anno, che nella maggior parte dei casi riguardano l’attività fisica, la dieta, la sveglia presto la mattina e una maggior efficienza. Sembra che l’ossessione per la produttività abbia contagiato anche i nostri rituali di inizio anno, come i buoni propositi, con una cultura del fare, e soprattutto del fare di più, in cui persino gli hobby diventano performativi. Tutto questo non può che scontrarsi con il numero di ore a disposizione e con le nostre energie limitate, generando spesso frustrazione, stress e senso di fallimento, se non riusciamo a stare al passo non solo con i ritmi lavorativi, ma a maggior ragione con gli obiettivi che ci siamo imposti per diventare persone migliori. Forse varrebbe la pena abbracciare l’idea di un ritorno alle nostre radici in quanto esseri umani, innanzitutto, ma anche animali: in ogni caso, non ingranaggi nella macchina di una società che sembra fondarsi unicamente sull’economia e poco sul tutto il resto. E accogliere la sincronizzazione stagionale del nostro corpo, che ci chiede più riposo, più sonno e un po’ di tempi “improduttivi” nei mesi invernali.
E invece la nostra società in questa tendenza ha persino visto un disturbo: in inglese lo chiamano winter blues – malinconia invernale – una “depressione” con sintomi quali maggior voglia di carboidrati e grassi, sonnolenza, calo delle energie e difficoltà di concentrazione al lavoro. Fattori che si possono semplicemente spiegare con un disturbo endemico: si chiama inverno. Ironia a parte, se è vero che esistono, e vanno riconosciuti e trattati opportunamente, i casi di seasonal affective disorder (in inglese giustamente sintetizzato dall’acronimo SAD, cioè “triste” e in italiano reso genericamente come “depressione stagionale” o “disturbo affettivo stagionale”) – una vera e propria alterazione dell’umore prolungata, riconosciuta in psicologia e psichiatria – non bisogna, invece, patologizzare la spontanea tendenza a una maggior pigrizia e sonnolenza che ci prende nei mesi più bui e freddi. Perché non tutto ciò che rema contro l’imperativo alla produttività e alla performance è una malattia.
Anche perché questa prospettiva sembra più che altro controproducente: opporci alla corrente che ci spinge a rallentare – cercando disperatamente di rientrare nelle caselle di bravi lavoratori, produttivi e performanti – non funziona, ha al massimo l’effetto di farci sentire dei falliti incapaci di tenere il ritmo, inadatti e in colpa. Sarebbe meglio accettare l’inverno e la lentezza che porta nelle nostre vite. La ritrovata lentezza delle festività non dovrebbe rappresentare il culmine della stagione invernale – anche perché ne segnala, in realtà, l’inizio: il Natale cristiano è stato, per convenienza, sovrapposto alle feste pagane legate al solstizio d’inverno, che festeggiavano il lento ritorno della luce – per segnarne il ritmo, fatto di giorni che si stanno lentamente allungando e di freddo –, ma malgrado la crisi climatica, gennaio e febbraio restano pur sempre i mesi più freddi dell’anno – che invitano a raccogliersi nel comfort degli spazi più amati e raccolti. Cercare di assecondare questo richiamo è forse il proposito più sensato per il nuovo anno. Almeno una parte dello stress che sempre più persone provano in relazione allo stile di vita che conduciamo potrebbe essere legato alla distanza siderale che abbiamo ormai con quelli che sarebbero i nostri ritmi fisiologici. Incorporarli oggi nella quotidianità – tra lavoro d’ufficio e doveri familiari, bollette e traffico – è quasi impossibile, ma ricordarcene può almeno evitarci un po’ di sensi di colpa se non corrispondiamo all’immagine di efficenza e produttività che ci eravamo figurati.
Rispetto all’approccio eccezionalista dei secoli scorsi – che ci ha fatto credere di essere superiori agli altri animali – oggi la scienza ci insegna che siamo imparentati con tutte le altre forme di vita sul Pianeta. E proprio la nostra dimensione biologica – e quindi animale – potrebbe essere lo strumento migliore per trovare un nuovo equilibrio tra noi e il resto del mondo: secondo Melanie Challenger, ricercatrice di Storia dell’umanità e Filosofia ambientale e parte del Nuffield Council on Bioethics, accettando che anche noi siamo animali, creiamo l’opportunità di pensare a come potremmo sfruttare i punti di forza della nostra eredità evolutiva traendone vantaggio nella nostra vita quotidiana, anche costruendo un rapporto migliore con la nostra realtà e con le altre specie.
L’inverno potrebbe essere il momento giusto per iniziare a ragionare in questi termini, praticando un po’ di indulgenza verso noi stessi, abbassando le aspettative, e ricominciando ad ascoltare il nostro corpo, se ci chiede lentezza; il momento perfetto, cioè, per riscoprire che siamo animali e, quindi, sarebbe un bene – compatibilmente con gli orari di lavoro e gli obblighi che vivere in società ci richiede – adottare un ritmo più aderente a quello della natura.
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