2mila miliardi di euro per liberarci dai PFAS, ma una vera bonifica non è possibile
Non esiste oggi una possibilità effettiva per eliminare i PFAS in maniera sicura. Si può solo arrestarne la diffusione, ma a costi altissimi. L'articolo 2mila miliardi di euro per liberarci dai PFAS, ma una vera bonifica non è possibile proviene da Valori.
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Partiamo dalla base: i PFAS non esistono in natura. Sono sostanze inventate dall’uomo e da un tempo relativamente breve, circa 80 anni. Per le loro caratteristiche chimiche, in pochi decenni sono arrivati in parti del mondo in cui gli esseri umani hanno a stento messo piede. Dall’Antartide alla foresta amazzonica. Il gruppo europeo di giornalisti Forever Pollution Project ha calcolato che la bonifica dell’inquinamento che hanno generato i PFAS potrà costare 100 miliardi di euro l’anno per vent’anni. Il totale è dunque di 2mila miliardi. Questo però solo se smetteremo immediatamente di produrli e diffonderli.
Cosa sono i PFAS e dove si trovano
Oggi rispondono alla definizione PFAS circa 10mila sostanze perfluoroalchiliche: catene di atomi di carbonio a lunghezza variabile legati ad atomi di fluoro e altri gruppi funzionali. Quasi tutte le molecole di PFAS mai sintetizzate fino a ora permangono in natura: la loro struttura chimica le rende praticamente indistruttibili in qualsiasi matrice ambientale. Da qui la definizione di forever chemicals, sostanze chimiche eterne.
A emettere PFAS nell’ambiente sono sia le fabbriche che li producono, sia gli oggetti che li contengono. Dalle ciminiere degli stabilimenti finiscono nel suolo, nell’acqua, nelle gocce di pioggia, nell’aria. I rifiuti industriali che li contengono spesso sono smaltiti in discarica, dove liberano gas. Queste sostanze finiscono nei terreni, nelle falde acquifere, nei fiumi. Riescono a introdursi nel corpo umano in diverse maniere: li mangiamo, li respiriamo, li indossiamo, li espelliamo facendoli finire nelle acque reflue.
In gran parte dei Paesi europei i PFAS finiscono direttamente sui campi destinati all’agricoltura attraverso i pesticidi e i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti. Ma sono anche nelle acque che vengono recuperate dagli impianti di trattamento e poi usate per l’irrigazione. Sono sospesi nell’aria, come minuscole gocce che poi cadono sotto forma di pioggia.
I costi della “bonifica” dai PFAS
Da quando è diventato noto che sono una minaccia per la salute, l’industria chimica ha gradualmente dismesso i cosiddetti PFAS di prima generazione. Si tratta di grandi molecole “a catena lunga”, utilizzate come impermeabilizzanti in molti oggetti di uso comune come padelle antiaderenti, imballaggi alimentari, tessuti antimacchia. La produzione di queste molecole– PFOS, PFOA, PFNA e PFHxS – oggi è vietata, ma quelle circolate per decenni sono ancora disperse nell’ambiente. La loro bonifica, a livello europeo, costerebbe 4,8 miliardi di euro all’anno.
Nel frattempo, però, sono arrivati i PFAS a catena corta e a catena ultrasonica. Anch’essi sono indistruttibili e, a differenza dei primi, sono molto più mobili. Sono talmente piccoli da penetrare nelle cellule degli esseri viventi e da eludere gran parte dei filtri per le acque. Il costo per rimuoverli dall’ambiente e distruggerli è esorbitante: 95 miliardi di euro all’anno per vent’anni, complessivamente 2mila miliardi di euro. Tutto questo immaginando di bloccare immediatamente la loro produzione e diffusione. In caso contrario, i costi vanno moltiplicati.
Cosa intendiamo quando parliamo di bonifica dai PFAS
Il termine “bonifica” però non deve confondere, visto che ad oggi non esiste la possibilità di eliminare i PFAS dal sangue umano, né dalla pioggia o dalla schiuma del mare. Quello che si può fare è bloccarne la diffusione, come accade nei territori in cui la concentrazione nelle acque potabili è più alta: in tal caso si interviene per depurare le acque prelevate dalle falde o trovare nuove fonti. Entrambe le misure mirano a mettere in sicurezza la cittadinanza, ma hanno due limiti macroscopici: i costi, addebitati in bolletta; e il fatto che le falde restano inquinate.
Di solito si procede con i filtri a carbone attivo che rimuovono i PFAS dalle acque creando legami chimici e fisici. Ogni filtro dura in media due mesi e, con le ultime tecnologie, può essere rigenerato fino a sei o sette volte. Anche questo, però, dipende dalla concentrazione di PFAS che viene filtrata. Esistono alternative teoriche ma, almeno al momento, sono troppo costose e poco scalabili.
Il filtraggio, tuttavia, non è risolutivo. Anche se i filtri sono rigenerabili e riutilizzabili, il carbone esausto va smaltito e l’unico modo che conosciamo è l’incenerimento. Per dissolvere i PFAS occorrono temperature superiori ai mille gradi centigradi. È un processo fortemente energivoro, e la letteratura scientifica ha studiato poco le conseguenze della combustione di PFAS a temperature così elevate. Non sappiamo cosa succede ai fumi liberati dagli impianti in cui si smaltiscono queste molecole.
Le lobby della plastica impegnate a difendere la produzione di PFAS
Resta dunque un dato incontestabile: la priorità è arrestare la produzione e la diffusione di PFAS, chiudere i rubinetti. Nel febbraio 2023 Forever Pollution Project ha mappato la diffusione dei PFAS in Europa individuando 23mila siti contaminati, 20 impianti di produzione ancora attivi e più di 21mila siti ritenuti pericolosi.
Alla diffusione di questi dati è seguito il tentativo di Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia di inserire una “restrizione universale” nel regolamento europeo sulle sostanze chimiche (REACH, da Registration, evaluation, authorisation and restriction of chemicals), mantenendo solo alcune deroghe temporanee in attesa di alternative. Immediatamente c’è stata la levata di scudi degli lobbisti del settore che assomiglia, in tutto e per tutto, alle campagne di boicottaggio nei confronti della legislazione sul tabacco, sui combustibili fossili o sul gas.
Le aziende produttrici di PFAS hanno aumentato del 34% i propri capitoli di spesa destinati alle lobby nel 2024. Le imprese più attive nel processo sono le associazioni di categoria CEFIC e Plastics Europe. Protagonista anche il grande produttore Chermours, spin-off di DuPont. Ma sono coinvolti anche lobbisti dei settori di batterie, tecnologie mediche e farmaceutiche, semiconduttori e altri ambiti manifatturieri. In Germania, il governo federale ha mostrato una posizione molto ambigua sulle restrizioni e gli industriali sono molto attivi in termini di lobbying. Già nel 2023 avevano ottenuto uno slittamento della riforma estensiva del REACH prevista dal Green Deal.
Le pressioni delle lobby nei confronti delle istituzioni europee
La discesa in campo delle lobby è diventata palese quando l’Agenzia europea per le sostanze chimiche ha aperto la consultazione pubblica. Le risposte delle imprese hanno sommerso il portale dedicato. Nonostante i dubbi sulla loro attendibilità scientifica, molte di queste argomentazioni sono state fatte proprie pubblicamente da vari decisori politici. Le tattiche usate per provare a influenzare la Commissione europea sono sempre le stesse: studi orientati, finanziati e diffusi dall’industria del settore, lobbying diretto, creazione di reti di alleati a supporto delle aziende, impiego di consulenti e grandi studi legali.
Il maggior gruppo di pressione spinge per una deroga sui fluoropolimeri, una specifica categoria di plastiche ad alta resistenza impiegate in molti oggetti di uso quotidiano (come padelle e abbigliamento outdoor), in alcune componenti degli aerei, nei filtri isolanti per gli impianti chimici. Tra queste spiccano le imprese della Fluoropolymers Plastics Group: AGC (Giappone), Arkema (Francia), Chemours (Usa), Daikin (Giappone), DuPont (Usa), Gujarat Fluorochemicals (India), WL Gore (Usa), Honeywell (Usa), Syensqo (ex Solvay, Belgio), Kureha (Giappone). Il produttore statunitense 3M è fuoriuscito nel 2023.
Secondo queste imprese, i fluoropolimeri dovrebbero essere esentati dal bando perché sono molecole troppo grandi per penetrare nelle cellule. I soli due articoli scientifici cui si appellano per difendere questa tesi sono stati redatti da dipendenti o consulenti delle aziende stesse.
Cosa dovremmo fare immediatamente
La bonifica dai PFAS è un processo lungo, complesso e, almeno al momento, non risolutivo. Proprio per questo, bisogna agire anche su altri fronti. La priorità è quella di vigilare sul processo decisionale sulla messa al bando dalle sostanze, in particolare sulle relazioni tra decisioni politici e industriali interessati a sabotarla. Nel frattempo bisognerebbe incentivare la ricerca sulle alternative più sostenibili che, al momento, non riceve abbastanza interesse né supporto. Servono infine studi indipendenti sugli impatti perché siano alla base delle regolamentazioni: in questo momento i dati a disposizione su limiti e misurazioni di PFAS sono ancora troppo pochi.
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