Macché Almasri, è il Fabrizio Corona dentro di noi che fa più paura
Non abbiamo dati alla mano ma possiamo esserne abbastanza certi: il caso del seviziatore libico Almasri che occupa da due settimane tiggì, giornali e dibattito parlamentare non frega granché al […]
![Macché Almasri, è il Fabrizio Corona dentro di noi che fa più paura](https://www.lafionda.org/wp-content/uploads/2025/02/hq720.jpg)
Non abbiamo dati alla mano ma possiamo esserne abbastanza certi: il caso del seviziatore libico Almasri che occupa da due settimane tiggì, giornali e dibattito parlamentare non frega granché al cittadino medio. Quello, per intenderci, che legge pochissimo e di sfuggita, coglie dal flusso d’immagini quanto basta per confermare le proprie certezze, non si sorbisce i talk d’approfondimento (o se lo fa, è per godersi il piacere perverso della rissa) e dopo una giornata di lavoro si informa il giusto, cioè niente o quasi. Mediamente si fa un’idea sommaria e approssimativa poiché qualcosa, dal bombardamento quotidiano di notizie, bene o male filtra e raggiunge anche il più distratto. Ma la sorte di un militare fino a ieri totalmente sconosciuto, per quanto gravi siano penalmente e moralmente le accuse della Corte dell’Aja e maldestra la gestione da parte del governo, non può appassionare l’italiano alle prese con ben più pressanti problemi: salute, lavoro, costo della vita, guerre (così, almeno, secondo il sondaggio Ipsos di fine 2024).
Non può, soprattutto, perché sul tema dell’immigrazione, a cui il caso Almasri nella percezione comune viene collegato come qualsiasi cosa provenga dalla Libia, il silenzio stampa è ormai da oltre due anni blindatissimo. Secondo il Viminale, l’anno scorso i profughi sbarcati sulle coste italiane sarebbero stati 66 mila. Più che dimezzati rispetto al 2023. Tanto basta per non parlarne più occultando la realtà, non propriamente idilliaca, che sull’altra sponda del Mediterraneo vede Tripolitania e Cirenaica divise, zeppe di milizie corrotte e impantanata in un conflitto interno per procura, con Turchia, Qatar, Egitto, Russia e potenze occidentali nella mischia a spartirsi zone d’influenza e relative risorse in gas e petrolio. Centrodestra e centrosinistra fanno quindi ognuno il loro gioco: strumentalizzano, approfittandone per agitare i rispettivi argomenti di battaglia, triti e ipocriti (il teorema della magistratura rossa o il dito puntato contro il cattivismo nero).
Un numero, invece, lo abbiamo eccome, per capire dove è diretto l’interesse di una fetta consistente di italiani: 4 milioni e 300 mila visualizzazioni. È l’ammontare fin qui raggiunto dal video che ha inaugurato il nuovo format di Fabrizio Corona su Youtube, “Falsissimo”. Per intenderci, la rete televisiva più vista, Rai 1, nella fascia oraria corrispondente al picco nell’ora di cena (prime time) macina una media di 4 milioni e 175 mila spettatori (dati Auditel 2024). Corona, insomma, è pop. E sinceramente, a chi scrive preme molto di più capire il fenomeno Corona che il caso Almasri. Perché Almasri ci parla di questioni sì rilevantissime (geopolitica, diritto internazionale, senso della legalità e dell’umanità), ma l’attenzione che calamita un Corona ci parla di una fenomenologia che può abitare ognuno di noi. Torna sempre buono parafrasare l’immortale Gaber: a far paura non è Corona in sé, è il Corona in me. La persona Fabrizio Corona riassume una serie di caratteristiche che ne fanno un simbolo. Più precisamente: l’idealtipo vivente di una figura che abbiamo già incontrato in altri personaggi, avvolti dall’aura del mito per aver accumulato fama, ricchezza e potere sulla spinta della pura e semplice brama di successo. Forse il precedente più accostabile è Flavio Briatore, con la sua aureola di avventuriero tutto motori, denaro, donne, televisione (ricordate The Apprentice, dove impersonava il Trump italiano?), yacht, locali di lusso e affarismo come pensiero unico e stile di vita. Lo stesso Silvio Berlusconi ha rappresentato, e issato agli allori della politica, questa ideologia della bella vita a tutti i costi (quanto bella, sarebbe da discuterne, e infatti qui ne discuteremo).
Corona però aggiunge elementi che lo rendono la versione 4.0 di questa antropologia dell’Egomane. È un narcisista conclamato e diagnosticato: al di là dei suoi disturbi, che l’hanno reso incompatibile con il carcere e meritano compassione come quelli di chiunque altro, questo suo tratto rimanda al narcisismo di massa che ci riguarda e implica un po’ tutti. La messa in vetrina del nostro quotidiano sui social network è solo l’esito ultimo di una tendenza dell’intera società dello spettacolo a trasformare ogni atto e pensierino comune, anche privato e intimo, in immagine da immettere sul mercato. A cominciare dalla tv trash del dolore e dei buoni sentimenti e a finire con certi creator sul web che non creano nulla, a parte mettersi in mostra da imprenditori non di sé, ma del selfie con cui hanno sostituito il sé. Corona, quando comunica, non fa che parlarsi addosso, non manda altro messaggio che non sia l’autopromozione costante e sfacciata, non cerca altro che l’ammirazione o riprovazione morbosa su quanto è figo, tatuato, desiderato, e comunque e sempre guardato. Il pudore in lui, così come avviene nell’immaginario diffuso, è totalmente assente.
Qual è il mestiere di Corona? Il gossip. Che è un mestiere a tutti gli effetti se, come abbiamo detto, da un bel po’ di anni a questa parte ogni frammento di esistenza è traducibile in una scena, con il suo più o meno inconfessabile retroscena. Inutile scandalizzarsi se, come scrive Selvaggia Lucarelli, il suo piano è “essenzialmente fare soldi sputtanando chiunque”. Al netto dei processi che lo vedono coinvolto con accuse che vanno dalla diffamazione alla tentata estorsione (magari da parte di accusatori a loro volta non sempre irreprensibili), è l’intera industria del pettegolezzo ad essere fondata sullo sputtanamento. Non perché non possa esserci una via morbida e indolore per rifilarci i fatti personali di famosi e semi-famosi (gran parte dei giornali e trasmissioni sui vip fanno servizi “telefonati”, marchette, spottoni), ma perché il clamore degli scoop si ha solo quando si rivelano segreti che, essendo tali, una volta scoperti – o “cucinati” – non possono che danneggiare i diretti interessati. Corona però non si camuffa da persona perbene dietro il paravento del diritto di cronaca. Lui ci va giù di mannaia e arriva a spiattellare il privato più privato, specialmente se sessuale, di letto, di corna e di vizi, con un’aggressività, una sfrontata acribia, con la posa del giustiziere della verità. Fa lo smutandatore delle star o micro-star. Ravana con gusto nelle ombre (o presunte tali: cosa cambia, ad esempio, sapere o ignorare se il tal protagonista del palcoscenico mediatico è omosessuale o no, per giunta in tempi in cui dichiararsi omosessuali fa notizia per appena qualche giorno?). Rivendica il ruolo di addetto alla pubblica gogna. E qui sì con moralismo, però distorto. Della serie: sei famoso? Allora devi dire tutto di te. Come se la celebrità comportasse il pegno di un ricatto. Come se – ed è questo che più ci interessa, perché investe la sensibilità comune – il confine fra facciata pubblica e dimensione privata porti insito un obbligo a venire dissolto, abbattuto. Come se il dovere di trasparenza fosse la molla paranoica della coazione a mostrarsi, a mettersi allo specchio e vendersi come oggetto di rispecchiamento – la sindrome di Narciso dilagata a malattia collettiva. Corona è il campione più spietato, ma anche più coerente, di questa ossessione a lavare i panni sporchi, ammesso e non concesso siano sporchi, sulla piazza virale. Riflesso in negativo dell’impellenza, indotta dalla logica dello schermo, a fare tutti, virtualmente, le piccole sfigate celebrities.
Ma al fondo della way of life estremizzata da Corona non sta l’esibizionismo o l’edonismo, come una lettura superficiale e bacchettona si affretterebbe a credere. Anzi, esaminando in controluce la tronfia soddisfazione con cui si vanta di fare il bad boy, questa sua spacconeria ci fa pensare piuttosto a un uomo profondamente infelice, che per provare un po’ di godimento nella propria vita deve cibarsi delle vite altrui. Se la vocazione di Corona è fare business rovistando nella spazzatura altrui, significa che della spazzatura è diventato schiavo. E se è a quest’immagine da guascone fuorilegge che deve il suo seguito (incluso il parco ammiratrici), riesce difficile ipotizzare un Corona che mostri un volto più umano, non sovrapposto alla maschera fissa che ormai ha appiccata addosso. Non è però della psicologia del Fabrizio uomo che vogliamo discorrere, nel mettere a fuoco il punto finale. Che invece a che fare con la psicologia della sua fanbase, così vasta e, dunque, così importante da analizzare. Unendo tutti i fili del discorso, il nucleo sembra consistere, secondo noi, in un pervertimento davvero incapacitante della volontà: non riuscire a contenersi, a trattenersi, a darsi dei paletti nell’affamata caccia alla prossima preda, a un’altra occasione per far parlare di sé, a un’ulteriore opportunità per dirsi bravi da soli, monetizzandoci possibilmente sopra. In questa continua passerella dove a contare è sempre l’ingombrante (e noioso) ego, l’insofferenza per i limiti – etici, estetici, a volte anche penali – restituisce la patologia che ci travolge: la dipendenza dopaminica dall’applausometro, dal numero di like, dai complimenti o dagli insulti (“bene o male purché se ne parli”, insegna il marketing), in ultima analisi, dalla vista altrui. Un individuo del genere, il Corona che è in noi, è l’esatto opposto di una persona libera. Perché dipende, appunto, dall’approvazione degli altri, che poi non è altro che il decantato “successo”. Senza, a cos’altro potrebbe aggrapparsi uno che vive del mito di sé stesso? Un soggetto così, che viaggia a due metri da terra ma dentro è un poveretto come tutti, non fa affatto una bella vita. Anche qualora fosse eccitantissima, piena di agi, vestiti griffati, amicizie altolocate, numeri di telefono importanti, donne disponibili e grana che gira.
Una vita, questa, che può andar bene come ideale adolescenziale, ma hai voglia tu a dover perennemente recitare, per costrizione interiore, la parte dell’adolescente all’infinito, anche a 50 anni suonati: non è una figata, è triste, è patetico. Si può avere simpatia per chi dovesse farlo con stile, con ironia, magari cercando di rendersi utile combinando qualcosa con qualche valore. Il Corona inside, invece, l’ironia non sa neanche cos’è: si prende tremendamente sul serio. Destituito di ogni senso dell’autoironia, palesa un’incoercibile difetto del senso del ridicolo. Un homme s’empêche, scriveva una grande mente che pure sapeva godersela: Albert Camus. Voleva dire che un uomo che voglia dirsi uomo – e non un dopato esistenziale, immaturo e presuntuoso – un vero uomo si controlla. Non divora tutto il divorabile, non si avventa su qualsivoglia fonte di bottino, non disconosce le regole solo perché non è stato lui a deciderle. Non fa equivalere l’affermazione di sé con gli indici di ascolto o il numero di follower. Non calcola tutto in base a tornaconto, al lucro, alla quantità. Nel saper darsi una misura – il che significa anche darsi agli eccessi, quando può e quando vuole – non vede mai gli altri come semplici mezzi e neanche, per la verità, come fini, ma come compagni d’esperienza. Con i quali, se c’è intesa, meglio; altrimenti, bene uguale. Magari a pensarla così sono in tanti, sui 55 milioni e rotti che non hanno visto, e presumibilmente mai vedranno, i voyeuristici show di Corona.