Il rischio europeo di essere spettatori di uno show a cui non possiamo più prendere parte è concreto

Abbiamo bisogno di una Unione Europea più forte e più coesa per poter fronteggiare e competere con Usa, Cina e Russia. Il rischio è l’irrilevanza che ci condurrà ad una lenta e inesorabile agonia. L'articolo Il rischio europeo di essere spettatori di uno show a cui non possiamo più prendere parte è concreto proviene da THE VISION.

Feb 5, 2025 - 15:30
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Il rischio europeo di essere spettatori di uno show a cui non possiamo più prendere parte è concreto

L’Unione Europea è un po’ quella casa da cui tendiamo a fuggire per poi riapprezzarla una volta scoperto cosa c’è nelle case altrui. Abitandoci facciamo fatica a riconoscerne fino in fondo i vantaggi, persino il privilegio di essere schermati da un alone di pace che, a fatica e con un lavoro non sempre visibile, viene mantenuto dai tempi dei trattati di Roma del 1957, seguiti da quelli di Maastricht del 1992 e di Lisbona del 2007. In teoria siamo tutti figli di Altiero Spinelli, di un sogno federale che a livello statistico ha dato i suoi frutti. Ogni anno, per esempio, l’ONU stila la lista Human Development Index, l’Indice di Sviluppo Umano (ISU) degli Stati mondiali basato su aspettativa di vita, PIL, istruzione, sanità, libertà democratica e altri fattori di primaria importanza per misurare lo stato di salute di un Paese. Anche la lista del 2024 vede gli Stati dell’Unione Europea in cima alla classifica, nella categoria “ISU molto alto”. Soltanto la Bulgaria, tra i membri UE, rientra nella categoria “ISU alto”, mentre nessuno figura tra “medio” o “basso”. In teoria dovremmo sentirci privilegiati rispetto a una gran fetta del pianeta: non abbiamo guerre tra Stati membri e non le abbiamo mai avute negli ultimi ottant’anni, non abbiamo dittature, Paesi dove le donne vengono lapidate in piazza o, guardando più a Ovest, dove vendono le armi al supermercato e minacciano una guerra al giorno. Il quadretto idilliaco viene spezzato da un altro piano di lettura, ovvero la consapevolezza che l’Unione Europea è ancora frammentata e che, schiacciata dalle potenze USA e Cina, è sostanzialmente un carrozzone a un passo dall’irrilevanza.

Di fronte a un contenzioso internazionale, si sa già che l’Unione Europea non reagirà in maniera compatta, lasciando invece che i singoli Stati prendano direzioni diverse, spesso in contrapposizione con i principi europei su cui dovrebbe fondarsi la visione politica e sociale della comunità. L’esempio più recente riguarda la posizione sul conflitto israelopalestinese. Fuori dalle parole di circostanza sul cessate il fuoco, soltanto meno di metà degli Stati membri ha riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina. L’Italia non rientra nel gruppo, con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha recentemente spiegato in aula che “l’opzione del riconoscimento di uno Stato che oggi non esiste rischia di diventare uno specchietto per le allodole rispetto a una questione che invece noi prendiamo con estrema serietà”. Come se la Spagna, ormai sempre più mosca bianca anche in Europa, non fosse una nazione abbastanza seria per aver riconosciuto lo Stato palestinese. Meloni si è giustificata dicendo che anche gli altri colleghi del G7 hanno fatto la stessa scelta del governo italiano, come se fosse un motivo valido per mantenere i rapporti con il criminale di guerra Netanyahu, continuare a vendere le armi a Israele e fingere che vada tutto bene.

Giorgia Meloni

Ciò che la premier non ha potuto dire è che la funzione di vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti non può essere interrotta. A livello pragmatico è comprensibile rispettare l’alleanza atlantica, il riconoscimento (talvolta un prezzo da pagare) per il Piano Marshall e per non averci fatto marcire dopo aver perso indecorosamente la Seconda guerra mondiale. È quindi giusto ribadire il proprio posizionamento nello scacchiere geopolitico, ma quando alleanza diventa sinonimo di sudditanza l’indebolimento di uno Stato o di una comunità è inevitabile. Anche perché senza un’unità d’intenti il segnale di debolezza nei confronti del resto del mondo diventa palese. Per esempio, di fronte al mandato di arresto della Corte penale internazionale per Benjamin Netanyahu, soltanto Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Irlanda, Lituania e Slovenia hanno preso una posizione forte a favore dell’esecuzione di tale ordinamento. L’Ungheria si è rifiutata categoricamente, e il resto dei Paesi membri ha mostrato titubanze aggrappandosi a “forse” e “vedremo” che hanno palesato da un lato un’opacità su un argomento così delicato, dall’altro l’indecisione di chi non è allineato con il resto della comunità. Prendiamo ancora una volta il governo italiano per capire lo stato di confusione: Meloni è stata pilatesca con un “valuteremo”, Crosetto, ministro della Difesa, ha detto che il diritto internazionale va rispettato e quindi in Italia scatterebbe l’arresto, e Salvini, solito arruffone allergico alle sentenze, ha dichiarato che “se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto, i criminali di guerra sono altri”. Viene quindi da chiedersi se esista una linea politica comune, e a quanto pare la risposta è no.

Guido Crosetto

Il rischio europeo di ridursi a spettatori di uno spettacolo a cui non possiamo più prendere parte è concreto. Possiamo eleggere europarlamentari che a sua volta formeranno la Commissione, realizzare emendamenti sull’ambiente e sulla salvaguardia del pianeta; poi arriva alla Casa Bianca una macchietta che dichiara che “con il riscaldamento globale avremo più case sulla spiaggia”, durante il suo insediamento da presidente annuncia di abbandonare il Green Deal e tutti gli accordi fatti in merito. E gli sforzi europei si vaporizzano. Qualche Stato ha silenziosamente gioito di fronte alle sparate di Trump. Probabilmente la Germania, in difficoltà economica per via della crisi dell’auto in seguito alle politiche sull’ambiente. Sicuramente l’ala salviniana del nostro governo, da sempre contraria alle politiche pro ambiente di Bruxelles. Ancora una volta, l’Unione Europea reagisce ai fatti esterni con l’impotenza dell’osservatore non abilitato ad agire. E dunque si adegua. L’esigenza di avere gli Stati Uniti d’Europa è di primaria importanza proprio per configurare un ok ordine all’interno del caos che oggi serpeggia in una comunità dove ognuno fa per sé, con Bruxelles utile solo come bancomat per intascare i fondi necessari alla sopravvivenza interna e ai progetti di ogni singolo Paese. Se però concepiamo l’Unione Europea come un distributore automatico di risorse e non come una creatura organica in grado di poter avere un suo peso specifico in rapporto alle altre potenze mondiali, forse la direzione verso il declino è segnata.

Matteo Salvini

A questo hanno contribuito gli Stati che dall’esterno hanno astutamente inserito i propri cavalli di Troia in Europa per destabilizzarla dall’interno. È risaputo che Putin abbia creato con la sua Russia Unita una rete di relazioni con diversi partiti populisti europei; tra questi AfD in Germania, Rassemblement National in Francia e Lega e Movimento Cinque Stelle in Italia. Per almeno un decennio questi partiti hanno portato avanti una propaganda antieuropeista, tra voti pro Russia a Bruxelles e campagne di denigrazione dell’Europa stessa all’interno dei propri Paesi. La Lega ha avuto anche l’ardore, seppur comico, di presentarsi alle elezioni europee al motto di “Meno Europa”. Eppure questa strategia ha funzionato, perché la massa ha iniziato a percepire l’Unione Europea come un’entità marziana, la nemica del popolo, se non la casa dei burocrati, invece di comprendere come noi stessi in quanto Italia ne facciamo parte. Quindi sul fronte statunitense c’è stata la spinta per renderci marionette dell’americanismo più estremo, mentre su quello orientale si è agito sull’harakiri, con gli europei a vergognarsi di esserlo, con la costruzione del culto dell’uomo forte (Putin) a primeggiare sui tecnocrati europei. Quest’ultima narrazione si è leggermente sfaldata dopo l’invasione in Ucraina – ma non del tutto, essendo rimasti numerosi frammenti di putinismo sparsi un po’ ovunque –, eppure l’Europa sembra non essere stata al passo con i tempi, restando fiacca del contrastare gli attacchi esterni e i tentativi di sabotaggio.

Vladimir Putin

Questo anche quando le minacce sono state dirette, come per le pretese di Trump sulla Groenlandia. Essendo stato coinvolto uno Stato europeo, la Danimarca, ci saremmo aspettati una reazione più decisa, invece di qualche comunicato scarno per poi ritrovarci Meloni a brindare con il neopresidente statunitense e il resto dell’Europa intimorito dal crescente potere dell’oligarchia statunitense, con l’uomo più ricco del mondo – Elon Musk – a fare saluti romani a caso e a costringere le principali aziende mondiali a inchinarsi al suo cospetto. La verità è che l’Unione Europea, per come è impostata adesso, non ha le armi a disposizione per poter contrastare queste prepotenze. Non ha voce in capitolo nemmeno sulle scelte economiche e commerciali che segneranno il futuro dei prossimi anni. Se USA e Cina lottano per TikTok, noi europei li osserviamo con lo stesso sguardo perso delle mucche che guardano i treni passare. Poi la macchina si attiverà, si faranno riunioni nelle sedi istituzionali, consigli di ogni tipo solo per deliberare la fuffa, ovvero il vuoto pneumatico di un’istituzione a cui manca il coraggio per elevarsi a vera potenza mondiale.

Criticare l’Unione Europea non vuol dire volerne la sua estinzione. Semmai è il contrario: la accusiamo di essere troppo poco “Unione”, troppo poco “Europea”, e l’unico modo per uscire dalle sabbie mobili dell’insignificanza è ampliare il proprio raggio di potere unificando più che dividere. Non che gli Stati membri debbano perdere la propria autonomia delegando tutto a Bruxelles, ma è necessario capire come sia insostenibile un sistema che non preveda statuti più rigidi sull’uniformità comunitaria, trattati stringenti che possano accorpare tratti giuridici, eserciti, economie e politiche sociali e civili dei singoli Stati. Se questo non dovesse avvenire, l’Unione Europea sognata da Spinelli e dagli altri padri fondatori resterebbe lo scheletro di una struttura mai completata. E torniamo di nuovo all’immagine della casa, di un posto dove è comodo vivere ma anche snervante, soprattutto se dall’esterno provano a rubarci le finestre e all’interno ci sono zuffe degne della peggiore riunione di condominio, quando volano gli schiaffi perché non ci si accorda per la ristrutturazione dell’ascensore. E nel frattempo i palazzi accanto crescono di dieci piani e ci sovrastano, mentre noi siamo a discutere sul colore delle piastrelle all’ingresso, impassibili di fronte alla caduta di quella che sta diventando sempre di più la casa degli Usher.

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