#IostoconTrump, la svolta delle big tech | Lo scenario di Guido Scorza
Il primo a scommettere sul secondo mandato di Donald Trump, mettendoci faccia e risorse economiche e tecnologiche, è stato Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e uno dei più istrionici e spregiudicati imprenditori di tutti i tempi. Scommessa vinta. Ha tirato la volata elettorale al tycoon, aggiudicandosi una poltrona alla Casa Bianca e il […] L'articolo #IostoconTrump, la svolta delle big tech | Lo scenario di Guido Scorza proviene da Osservatorio Riparte l'Italia.
Il primo a scommettere sul secondo mandato di Donald Trump, mettendoci faccia e risorse economiche e tecnologiche, è stato Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e uno dei più istrionici e spregiudicati imprenditori di tutti i tempi.
Scommessa vinta. Ha tirato la volata elettorale al tycoon, aggiudicandosi una poltrona alla Casa Bianca e il titolo di presidente-ombra della più grande democrazia occidentale. Poi sono arrivati tutti gli altri leader del firmamento tecnologico globale, con (per ora) poche, timide e solo parziali eccezioni.
“Lavoreremo con Trump per respingere i tentativi dei governi di tutto il mondo di spingere le aziende americane verso la censura”, ha detto qualche giorno fa Mark Zuckerberg, CEO di Meta. “Gli USA hanno la più forte protezione costituzionale al mondo della libertà di espressione. L’Europa ha un numero crescente di leggi che istituzionalizzano la censura e rendono difficile fare qualsiasi cosa innovativa. L’America Latina ha Corti occulte che ordinano silenziosamente di rimuovere contenuti online. La Cina ha vietato alle nostre applicazioni di lavorare nel Paese. L’unico modo che abbiamo di respingere questo trend globale è supportare il governo americano”.
Una dichiarazione di discesa nell’agone politico globale dalla parte di Trump e contro America Latina, Cina ed Europa. Un inedito assoluto per le big tech, che mai si erano tanto apertamente schierate con un governo contro altri Paesi nei quali pure fanno business.
Forse Zuckerberg ha persino superato a destra Musk, perché quest’ultimo, almeno formalmente, è sceso in campo in proprio, mentre il primo, parlando al plurale, ha manifestato l’intenzione di schierare sotto la bandiera americana tutte le sue aziende tecnologiche.
Ma è la punta dell’iceberg. Perché non c’è un leader delle big tech che, all’indomani della seconda elezione di Trump, non sia volato in Florida a omaggiarlo, lasciando oboli a sei zeri – generalmente superiori rispetto al passato – per finanziare la cerimonia di insediamento del presidente e manifestando la volontà di lavorare insieme.
#IostoconTrump è diventato insomma in poche settimane il trending hashtag dell’intera galassia delle big tech. Un fenomeno storicamente curioso, se si considera che appena qualche anno fa, dopo i fatti di Capitol Hill, più o meno lo stesso gotha della Silicon Valley aveva di fatto condannato proprio Trump a una sorta di ostracismo digitale.
È tuttavia anche un fenomeno comprensibile e quasi scontato, dettato dal desiderio della grande industria tecnologica americana di salire sul carro del vincitore e dall’opportunità di schierarsi dalla parte di un presidente che non fa mistero di voler fare gli interessi dei più ricchi.
Gioca un ruolo anche la necessità di sottrarsi al rischio che Musk possa capitalizzare eccessivamente la sua vicinanza a Trump per garantire alle sue aziende un vantaggio competitivo sui concorrenti.
Più complesso e interessante è interrogarsi sulle conseguenze di quello che sta accadendo. Sin qui le big tech avevano preferito tenere una posizione di neutralità rispetto alle cose della politica nazionale e internazionale.
Che cosa accadrà ora che gli oligopolisti globali del mercato tecnologico annunciano di volersi schierare con il governo di casa loro e in alcuni casi addirittura contro governi stranieri?
Che cosa accadrà ora che soggetti sin qui prevalentemente di mercato dichiarano di essere pronti a diventare anche soggetti politici? E questo soprattutto in considerazione del fatto che i soggetti in questione dispongono di risorse tecnologiche e finanziarie enormemente superiori rispetto a quelle della maggioranza dei Paesi sullo scacchiere geopolitico globale?
Per carità, guai a negare che le vecchie Gafam – Google, Amazon, Facebook-Meta, Apple e Microsoft – un ruolo politico lo hanno già giocato in diverse occasioni. Però mai o quasi mai sin qui ci si era ritrovati a dover fare i conti con l’eventualità che lo straordinario potere conquistato da questi soggetti nella società digitale potesse essere posto a servizio di un solo governo e del suo leader.
In questa prospettiva il pensiero corre all’enorme patrimonio informativo (contenente miliardi di tessere del mosaico dell’identità personale di oltre la metà della popolazione globale) conservato nei forzieri della Silicon Valley e in quelli delle altre big tech a stelle e strisce.
Quel patrimonio può azzerare ogni forma di democrazia trasformandosi in un incontenibile potere di manipolazione di massa dell’opinione pubblica e di eterodirezione di ogni genere di scelta individuale, commerciale e politica, garantendo il controllo sul destino dell’intera comunità internazionale.
In recenti episodi ciò è già accaduto: le elezioni rumene annullate a causa di un utilizzo indebito dei social network da parte di un candidato e l’ammonimento che il Garante Europeo per la Privacy si è visto costretto a indirizzare alla stessa Commissione UE, rea di aver usato X e la sua straordinaria conoscenza degli utenti per convincere decine di milioni di persone della bontà di una sua proposta regolamentare.
Che cosa accadrebbe domani se il governo di Washington chiedesse a X e Meta di convincere la popolazione globale della bontà di certi principi, valori, convinzioni? Certo, che possa accadere non vuol dire che accadrà, ma oggi il rischio è più elevato, perché il leader di una super-potenza si è appena sentito giurare fedeltà dal più invincibile battaglione di cavalieri digitali che la storia abbia conosciuto.
Non basta. Come i giorni bui della pandemia hanno mostrato a tinte più forti che in passato, esistono regioni del mondo, Europa inclusa, che vivono in una condizione di dipendenza tecnologica dai servizi delle big tech americane, quasi fossero loro colonie digitali.
La sovranità digitale spesso evocata resta infatti, con poche e marginali eccezioni, un’ambizione difficilmente raggiungibile, almeno nel breve periodo.
Ci si deve chiedere se uno scenario come quello che si va profilando sia democraticamente sostenibile. Una cosa è preoccuparsi di questa dipendenza in termini commerciali e di mercato (come, seppur tardivamente, l’Europa ha cominciato a fare da qualche anno), un’altra è doversene preoccupare anche politicamente.
Mai il tema della sovranità digitale è stato attuale e importante come in queste ore. L’assenza di questa sovranità infatti pone l’Europa in una condizione di enorme fragilità, in quanto la dipendenza tecnologica si colora di inediti tratti geopolitici.
Sono giorni bui della storia di Internet, forse tra i più bui, e c’è bisogno di lucidità, razionalità, buon senso e apertura al confronto e al dialogo globale, altrimenti il 2025 potrebbe essere ricordato come l’annus horribilis dell’ecosistema digitale globale e dell’intera comunità internazionale già dilaniata da guerre e tensioni.
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