Investimenti e mercati alla prova degli accordi tra Usa e i Paesi alleati
I romani operavano una distinzione tra bellum civile, il conflitto all’interno della civitas, e bellum sociale, la guerra tra Roma e i socii, gli alleati. La guerra sociale tra Roma e gli alleati italici, che erano da secoli integrati militarmente e avevano combattuto insieme innumerevoli guerre contro i nemici esterni, devastò l’Italia per quattro anni... Leggi tutto
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I romani operavano una distinzione tra bellum civile, il conflitto all’interno della civitas, e bellum sociale, la guerra tra Roma e i socii, gli alleati. La guerra sociale tra Roma e gli alleati italici, che erano da secoli integrati militarmente e avevano combattuto insieme innumerevoli guerre contro i nemici esterni, devastò l’Italia per quattro anni (dal 91 all’87 avanti Cristo), provocò centomila morti e lo sterminio di intere popolazioni, tra cui gli osci.
L’oggetto del conflitto fu tanto politico (l’estensione della cittadinanza romana agli Italici) quanto economico (la riforma agraria che favoriva il proletariato romano rispetto all’aristocrazia terriera italica). La sua ferocia fu dovuta alla coesione e alla capacità organizzativa e militare degli Italici, che si dotarono di una moneta e di una struttura statuale autonoma, ricalcata su quella romana.
Ancora prima di tornare alla Casa Bianca, Trump ha fatto capire con grande chiarezza che non guarderà in faccia a nessuno, alleati o meno, se si tratterà di difendere gli interessi strategici americani. Prenderà la Groenlandia con le buone o con le cattive dagli alleati danesi, prenderà il Canale dall’alleato panamense e soffocherà economicamente Canada e Messico se non accetteranno le richieste americane. Gli alleati colpiti hanno tutti reagito con dichiarazioni risentite. La Francia ha addirittura offerto di inviare truppe in Groenlandia per aiutare i danesi a difenderla da eventuali attacchi americani.
È presto per capire fin dove si spingerà la rinnovata assertività americana e quanto gli alleati saranno davvero in grado di tenerle testa, eventualmente coalizzandosi tra loro. Quello che sappiamo, anche perché ci viene detto con chiarezza dalla nuova amministrazione, è che l’America di Trump riconosce realisticamente la multipolarità del mondo più di quanto sia stato fatto finora. Ma proprio per via di questo riconoscimento, il fronte alleato va verificato, riallineato e compattato nel modo più energico possibile. Allo stesso tempo, la verifica verrà condotta nei confronti dei Paesi che finora hanno tratto vantaggio dal loro stare a metà strada tra America e Cina o tra America e Russia. Trump sembra contare molto sul fatto che, messi alle strette, Paesi come l’India, la Turchia, l’Indonesia, le monarchie arabe del Golfo e il Brasile sceglieranno tutti l’America. Una volta ricompattati gli alleati e riavvicinati a sé i poco allineati, tutto sarà più semplice con Cina e Russia.
Alcuni hanno visto nella rapida soluzione della controversia dei giorni scorsi con Canada e Messico una marcata debolezza di Trump, che si sarebbe accontentato del classico piatto di lenticchie in cambio della rinuncia a corposi dazi del 25 per cento. Se la politica protezionistica è tutta qui, si è pensato, sarà solo una tigre di carta. Così facendo, si sono però trascurati due fattori importanti.
Il primo è che la politica trumpiana sui dazi è costruita su due livelli. Uno è quello dei dazi come strumento di negoziato per ottenere rapidamente concessioni specifiche su fronti extraeconomici. È stato così con la Colombia, con il Canada e con il Messico. Grazie a queste concessioni, d’ora in avanti l’America rimanderà a casa tutti gli immigrati illegali che vorrà in qualsiasi paese senza che nessuno si opponga. D’altro canto il fentanyl, un tema su cui Trump si è molto speso in campagna elettorale e che è particolarmente sentito dagli elettori, sparirà dagli Stati Uniti e dal Canada in tempi brevi.
L’altro livello è quello dei dazi come fine in sé, ovvero come fonte di reddito e fattore di reindustrializzazione dell’America. Questi dazi richiederanno ancora alcune settimane di studio e, forse, un passaggio in Congresso. Saranno mirati e chirurgici e insisteranno su specifici settori merceologici ovvero quelli, come ad esempio il farmaceutico, che l’America considera strategici per la propria autosufficienza in caso di conflitto. Il perdurare nel tempo di questi dazi non si misurerà in ore, come è stato il caso del 25 per cento applicato a Canada e Messico, ma in anni. Saranno questi i dazi veri, non quelli pirotecnici che abbiamo visto finora.
Un altro fattore che si è trascurato è che, con l’attenzione mediatica tutta concentrata sulle trattative lampo con Messico e Canada, nessuno ha fatto troppo caso al 10% aggiuntivo di dazi imposto alla Cina. E questa volta sono stati inclusi tutti i prodotti, compresi quelli, finora esenti, che tutti acquistiamo su Amazon e che hanno un valore inferiore agli 800 dollari. In pratica i nuovi dazi pesano quasi esattamente come quelli imposti alla Cina in varie rate tra i 2018 e il 2019. Si ricorderanno i dibattiti preoccupatissimi di allora sull’avvento di una nuova era di chiusura del commercio internazionale e sugli effetti recessivi e inflattivi delle nuove misure. Si ricorderanno i mesi d’ansia trascorsi dai mercati tra un round e l’altro dei negoziati con i cinesi, la preoccupazione della Fed, che alla fine alzò i tassi (anche per bilanciare i tagli fiscali di Trump) e provocò un duro bear market alla fine del 2018.
Bene, questa volta nessuno si è strappato i capelli per i nuovi dazi alla Cina e il mercato azionario, dopo tre giorni di modesto ribasso, ha recuperato tutto. I bond, dal canto loro, stanno meglio di prima mentre il renminbi non si è praticamente mosso. Non sappiamo se sia stato fatto apposta, ma Trump ci ha distratti con Canada e Messico e si è portato a casa gratis la stretta verso la Cina.
A contribuire alla forza dei mercati e alla ritrovata salute dei bond lunghi americani sono state certamente anche le prime conferme che la nuova amministrazione potrebbe fare sul serio quando si pone l’obiettivo di dimezzare il disavanzo pubblico entro fine mandato. Musk ribadisce di essere vicino a individuare 4 miliardi al giorno di tagli di spesa potenziali, il che farebbe un trilione e mezzo in ragione d’anno. Sarebbe una somma superiore a qualsiasi previsione e lascerebbe qualche spazio ad almeno alcuni dei tagli di imposte annunciati.
Su questo aspetto è meglio restare prudenti. Tagliare le spese richiede sempre un forte consenso politico che per ora c’è, ma che non è scontato per il futuro. Va poi ricordato che ci sono anche spese che aumenteranno, come quelle militari. In ogni caso, considerando che il mercato negli ultimi anni non ha mai coltivato nessuna illusione sul ridimensionamento del disavanzo pubblico, fare qualcosa in questa direzione sposterebbe un po’ di attenzione (e di soldi) dall’azionario ai Treasuries lunghi.
Ad aiutare questi ultimi sono anche le scelte del Tesoro, che conferma, con la prevalenza di emissioni brevi, l’intenzione di lasciare respirare la parte lunga della curva, come aveva fatto la Yellen. È una strategia su cui è stato coinvolto lo stesso Trump, che intende lasciare alla Fed la parte breve e i tassi di policy e concentra gli sforzi dell’amministrazione sui titoli lunghi, decisivi per i mutui, per i programmi di investimento a lungo termine e per la determinazione di multipli azionari.
Tutto è in movimento ed è difficile capire in anticipo il come e il quanto. Non sappiamo ad esempio se e quanto i tagli alla spesa pubblica si tradurranno in minore crescita e se questa minore spinta fiscale verrà compensata da deregulation e minori tasse sulle imprese. La sensazione è comunque che l’effetto netto per gli asset finanziari sarà positivo.
A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e il Nero)