Quella voce fuori dal coro

Tutti fanno e dicono le stesse cose. E allora, come differenziarsi? Passando dal concetto di audience a quello di target, fissando obiettivi concreti, utilizzando linguaggi diversi e un mix tra canali mediatici. E poi, ci vuole "l'occhio che brilla”. Parola di Manuela Ronchi, founder e Ceo di Action Holding L'articolo Quella voce fuori dal coro proviene da Economy Magazine.

Jan 15, 2025 - 12:01
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Quella voce fuori dal coro

Chi ha paura della comunicazione? Ma che domande… le piccole e medie imprese, ovviamente. Un po’ perché non sanno che pesci pigliare, un po’, anche, perché si spaventano per la spesa e non si concentrano sulla resa. «Le Pmi hanno paura di affrontare il tema della comunicazione perché quando si rivolgono alle società blasonate si spaventano dei costi. E quindi la comunicazione non viene fatta sedere al tavolo strategico a monte, ma diventa una commodity a valle del piano di marketing», conferma a Economy Manuela Ronchi, figura di spicco nella comunicazione strategica italiana che dopo aver affiancato Gerry Scotti nella sua agenzia, nel 1995 fondò Action Agency e oggi è a capo di Action Holding con le sue dieci aziende nel campo dell’innovazione dei linguaggi comunicativi in Italia e nel Regno Unito. «Io invece sostengo che marketing e comunicazione non siano subordinate l’una all’altro, ma lavorino a braccetto. È tutta una questione di posizionamento».

Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.

Spesso le aziende acquistano spot e pagine pubblicitarie in tv o sui principali quotidiani pensando di realizzare chissà quali risultati, ma poi si lamentano della mancata conversione. Per forza: quello è posizionamento, non conversione. Serve per acquisire autorevolezza, per fare branding e storytelling. Bisogna passare dal concetto di audience al concetto di target: è questo il vero, grande, passaggio culturale. E oggi, nell’era dei dati, abbiamo un grande vantaggio: invece di dire subito all’agenzia “Vorrei fare questo e quest’altro” occorre sapere cosa si vuole ottenere. Non ci si deve lasciar abbagliare dai grandi numeri: sono i numeri giusti quelli che contano. Incrociando le banche dati si profila esattamente il target e si pianificano le campagne correttamente. E non solo sul digital. È difficile sbagliare. Poi occorre avere campagne fatte bene, perché tutto è diventato entertainment e bisogna conoscere esattamente la grammatica narrativa di ogni media. Certo, è complicato: bisogna sempre inventarsi nuove cose.

Beh, se è per questo nel 2017 è stata tra le pioniere dei branded podcast con Action Media Ltd, che oggi si chiama Dr Podcast ed è una delle factory di Publitalia ’80. E poi il vodcast “Alla Manu- Storie di Comunicazione. E ancora, nel 2024, l’ideazione di un nuovo format, lo Show-How, la narrazione verticale ai tempi dell’AI, debuttando con la voce narrante di Luciano Floridi, filosofo fra i massimi esperti di etica del digitale e dell’informazione.

Penso che se sei fuori dal coro significa che hai ragione. E poi, ogni format ha un suo linguaggio, mentre oggi c’è il vizio di creare un contenuto per copiarlo e incollarlo ovunque. Non può funzionare.

Cos’è che funziona, allora?

Come dice il “mio” professor Floridi, la relazione tra il servizio o il prodotto, e il consumatore. Ma nell’era del digitale la fiducia non è più quella di prima e quindi bisogna studiare in continuazione. Se non hai la mente allenata ad accogliere, il cambiamento rimane al palo e prima o poi ci si schianta contro il muro. Nelle imprese, prima di tutto, ma anche nella comunicazione, per differenziarsi in un mercato dove tutti fanno le stesse cose.  E per avere una leadership bisogna avere innanzitutto “l’occhio che brilla”: se non hai la passione sfrenata per quello che fai, non c’è competenza che tenga. E poi le relazioni: sono importantissime.

Insomma: competenze, relazioni, “occhio che brilla”. È questo il segreto del successo?

Sono le tre cose che insieme che funzionano. Non o una o l’altra o l’altra. Perché se sei solo competente sei noioso, non ti ascolta nessuno. Se non hai la passione al primo ostacolo ti fermi. E se non hai il sistema relazionale che fa immediatamente da effetto domino, non vai da nessuna parte. È non è sempre una questione di soldi: si lavora per fare delle cose belle, i soldi arrivano dopo.

Poi ovviamente non si possono solo fare cose che ci piacciono: bisogna fare cose che poi convertono.

Ed è anche la caratteristica della mia comunicazione: deve convertire, altrimenti è un esercizio del bello che rimane lì. Innovare per me vuol dire avere il coraggio di fare le cose prima degli altri. Io per esempio, adesso che ho anche un dipartimento eventi, sono la prima ad annoiarmi dei brief che ricevo. Tutti i brief sono: “vogliamo un’idea innovativa, out of the box, una cosa originale”. Ma cosa vuol dire? E poi tutte le aziende chiedono la stessa cosa nello stesso momento: la sostenibilità, l’inclusione, eccetera. Allora è solo un trend a cui tutti si attaccano, non è strategia di comunicazione.

Cos’è, allora, la strategia di comunicazione?

Per dirla con Schopenauer, «Un talento colpisce un bersaglio che nessun altro può colpire; un genio colpisce un bersaglio che nessun altro può vedere». Anni fa (decenni a dire il vero) ho avuto il coraggio, prima degli altri, di sdoganare il concetto di personal branding. Io faccio gestione dei diritti di immagine e strategie di posizionamento per dei personaggi. Come? Facendo maieutica: conosco un personaggio che ha “l’oro in bocca” e voglio che lo vedano tutti.

Quindi elaboro una strategia di posizionamento nei confronti di chi ha talento. Lo può avere un imprenditore, un manager, uno sportivo, un cantante. Poi, ascoltando le persone, ho intercettato i podcast prima ancora che in Italia si parlasse di questo format. E l’ho portato all’interno delle imprese per risolvere delle problematiche in azienda: la formazione vecchio stampo è finita perché non puoi chiudere in aula le persone per fare formazione, perdi la produttività. L’abbiamo chiamato traincast e l’abbiamo usato per esempio per formare il personale nelle boutique di Cartier. Se oggi vado a comprare il “chiodo” – un particolare bracciale di Cartier, ndr – non mi dicono solo se è oro bianco, oro, giallo, oro rosso con i diamanti o meno: mi raccontano perché il chiodo è diventato il bracciale.

Tornando alla questione del target?

Stiamo evolvendo sulla verticalizzazione anche rispetto agli argomenti: occorre andare sui canali mediatici specifici dove sappiamo si trovano i soggetti già predisposti ad ascoltarci. E hanno invece stufato i convegni alla TedX dove a ogni relatore viene affidato un quarto d’ora… per dire magari un sacco di banalità sull’intelligenza artificiale. Non è prestigio, quello, ma sequestrare l’audience. Poi non stupiamoci se tutti stanno al convegno col telefonino in mano a fare altro.

A proposito di IA: in tutto questo dove la mettiamo?

Nel mix di precisione, un concetto legato alla filosofia contemporanea dell’informazione. Noi oggi abbiamo la possibilità di avere tanti dati che prima non avevamo. Ma abbiamo anche la responsabilità di usarli. Con il digitale e l’AI non dobbiamo riempire il tempo che risparmiamo rimettendo dentro altro lavoro. Dobbiamo usare il tempo che abbiamo per pensare, per riflettere, per fare cultura, perché siamo noi che diamo i prompt all’intelligenza artificiale. Ma poi l’interpretazione è sempre in mano nostra.

Sarebbe bello se i brand, invece di adeguarsi alla moda del momento, credessero al 100% in quello che fanno, interiorizzando la tendenza e facendo ognuno del proprio per personalizzarla in base a ciò che vogliono comunicare al mercato.

Sì, ma… quanto costa?

Cambiamo la terminologia: passiamo dal “quanto costa?” al “quanto devo investire” perché il concetto di costo ha un impatto sul nostro cervello negativo, è una spesa, una perdita di soldi. Per investire con consapevolezza bisogna analizzare bene l’azienda e capire dove si vuole arrivare, cosa si vuole ottenere, quali sono gli obiettivi. E poi costruire un percorso. Allora solo così la comunicazione non sarà vista come un costo, ma come un investimento.

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