Elly Schlein e l'ombra del professore

Che tempi quelli dell’appoggio dell’attuale segretaria del Pd a Romano Prodi «impallinato» nella corsa alla presidenza della Repubblica. Oggi Schlein non riesce a fare una credibile opposizione. Ecco quindi che il sempre attivo Professore muove ancora le sue pedine.No, l’armocromista sarebbe stata assoldata soltanto dieci anni più tardi, con incerti risultati peraltro. In quel giugno 2013, invece, Elly Schlein è ancora una giovane antagonista: giacca grigia, maglia arancione, grandi speranze. E quando la candidatura al Quirinale di Romano Prodi viene fiocinata da 101 parlamentari Dem, la futura segretaria si scapicolla sotto casa del Professore, traboccante di stima e deferenza. Gli consegna una maglietta, con le firme dei ben più eroici 101 militanti di Occupy Pd, per risarcire «la ferita enorme che ci hanno aperto». Prodi, ricevuto il dono simbolico, bofonchia: «La politica è fatta così. Ed è già la terza volta. C’ho fatto l’abitudine...». Al culmine dell’insincerità, aggiunge: «Anche i colonnelli vanno in pensione». La prostrata Elly dissente: «Sarebbe meglio però che andassero in pensione altri», piuttosto che «un simbolo come lei». Implorazione finale: «Ci dia ancora una speranza in questo partito. Alcuni di noi, io per prima, si devono tesserare. Vorremmo tornare a farlo insieme».In ossequio alla migliore tradizione della commedia politica all’italiana, adesso le parti si sono rovesciate. La generalessa Elly resta asserragliata nella trincea del Nazareno. E il tanto ammirato Romano cerca di stanarla. A ottantacinque anni continua a cecchinare: critiche, ingerenze, grandi manovre. È il comandante emerito dei dissidenti cattolici, contrari alla deriva movimentista. Si sono pure riuniti a Milano, per un convegno organizzato dall’ex ministro Graziano Delrio. Prodi, in videoconferenza, ha scomunicato la segretaria mangiapreti e benedetto i nuovi apostoli: «Se si vogliono vincere le elezioni c’è bisogno della sinistra e di una parte che vada più verso il centro». Certo, la conseguente ideona non è proprio originalissima: far rifiorire l’appassita Margherita. Ma è il sulfureo sottotesto, condiviso da mezzo Pd, quel che conta davvero: con Elly non vinceremo mai. Il fondatore dell’Ulivo s’è pure adoperato per cercare una valida alternativa. Alla fine, l’epigono prescelto sarebbe Ernesto Maria Ruffini: già direttore dell’Agenzia delle Entrate, figliolo di un ex ministro diccì e nipote di un compianto cardinale. Al momento, certo, sembra avere il carisma di uno scaldabagno. Difficile, poi, che il capo degli esattori possa incantare un popolo vessato dal fisco. Il correntone riformista, invece, predilige il regolamento di conti interno. Ovverosia: abbandonare il radicalismo di Elly, che continua a dare il meglio in contesti settantottini e gay pride, per tornare al più rassicurante passato. E tra le vecchie ed evocate glorie, nessuno scalda i cuori come «Er Moviola»: Paolo Gentiloni, ex premier e commissario europeo, che ha pure partecipato alla riunione di«Libertàeguale» a Orvieto.Agatha Christie avverte: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Dopo i due convegni, è intervenuto persino il mentore di Elly, quel volpone di Dario Franceschini. Il campo largo è un fallimento, spiega a Repubblica: «I partiti che formano la possibile alternativa alla destra sono diversi e lo resteranno. È inutile fingere che si possa fare un’operazione come fu quella dell’Ulivo». Occorre marciare divisi alle elezioni, per poi colpire uniti tentando improbabili alleanze. La strategia maoista sconfessa però i disperati tentativi della segretaria dem, già definitasi «testardamente unitaria». Ecco l’ennesimo indizio, appunto: il tradimento di «Giuda» Franceschini, che già pugnalò Enrico Letta nel 2014. E dunque, la decisiva prova: vogliono sbarazzarsi di Elly. Il prima possibile, pure. Del resto, ad aprile 2025 diventerebbe la terza segretaria più longeva della storia del Pd, dopo Renzi e Pier Luigi Bersani. Due anni filati. Per i dem, un’eternità. E poi, c’è l’incrollabile e fondatissima certezza: contro Giorgia, alle prossime politiche, rimedierebbe un’epocale figuraccia. Non ne sono convinti solo i machiavellici colleghi, tra l’altro. Nutrono considerevoli riserve anche celebri simpatizzanti. La cantante Elodie, regina del pop italiano, ora informa: «Sono di sinistra ma non voto Schlein, non ha carisma». Il giornalista Corrado Augias, venerato maestro d’area, su Elly sorvola: «Passerei alla prossima domanda», dice intervistato dal Corriere della Sera. Non a caso in via della Scrofa, quartiere generale di Fratelli d’Italia, della possibile antagonista si parla sempre con entusiasmo: «Che Dio ce la conservi». Allarme rosso, dunque. Serve Romano: il padre nobile, il creatore dell’Ulivo, l’unico a vincere un’elezione nell’ultimo trentennio. Il «simbolo» che faceva palpitare la giovane Elly. Nel lontano 2013, appunto, lo segue allora tra i vicoli bolognesi, per consegnargli quel simbolico

Feb 6, 2025 - 15:57
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Elly Schlein e l'ombra del professore


Che tempi quelli dell’appoggio dell’attuale segretaria del Pd a Romano Prodi «impallinato» nella corsa alla presidenza della Repubblica. Oggi Schlein non riesce a fare una credibile opposizione. Ecco quindi che il sempre attivo Professore muove ancora le sue pedine.

No, l’armocromista sarebbe stata assoldata soltanto dieci anni più tardi, con incerti risultati peraltro. In quel giugno 2013, invece, Elly Schlein è ancora una giovane antagonista: giacca grigia, maglia arancione, grandi speranze. E quando la candidatura al Quirinale di Romano Prodi viene fiocinata da 101 parlamentari Dem, la futura segretaria si scapicolla sotto casa del Professore, traboccante di stima e deferenza. Gli consegna una maglietta, con le firme dei ben più eroici 101 militanti di Occupy Pd, per risarcire «la ferita enorme che ci hanno aperto». Prodi, ricevuto il dono simbolico, bofonchia: «La politica è fatta così. Ed è già la terza volta. C’ho fatto l’abitudine...». Al culmine dell’insincerità, aggiunge: «Anche i colonnelli vanno in pensione». La prostrata Elly dissente: «Sarebbe meglio però che andassero in pensione altri», piuttosto che «un simbolo come lei». Implorazione finale: «Ci dia ancora una speranza in questo partito. Alcuni di noi, io per prima, si devono tesserare. Vorremmo tornare a farlo insieme».

In ossequio alla migliore tradizione della commedia politica all’italiana, adesso le parti si sono rovesciate. La generalessa Elly resta asserragliata nella trincea del Nazareno. E il tanto ammirato Romano cerca di stanarla. A ottantacinque anni continua a cecchinare: critiche, ingerenze, grandi manovre. È il comandante emerito dei dissidenti cattolici, contrari alla deriva movimentista. Si sono pure riuniti a Milano, per un convegno organizzato dall’ex ministro Graziano Delrio. Prodi, in videoconferenza, ha scomunicato la segretaria mangiapreti e benedetto i nuovi apostoli: «Se si vogliono vincere le elezioni c’è bisogno della sinistra e di una parte che vada più verso il centro». Certo, la conseguente ideona non è proprio originalissima: far rifiorire l’appassita Margherita. Ma è il sulfureo sottotesto, condiviso da mezzo Pd, quel che conta davvero: con Elly non vinceremo mai. Il fondatore dell’Ulivo s’è pure adoperato per cercare una valida alternativa. Alla fine, l’epigono prescelto sarebbe Ernesto Maria Ruffini: già direttore dell’Agenzia delle Entrate, figliolo di un ex ministro diccì e nipote di un compianto cardinale. Al momento, certo, sembra avere il carisma di uno scaldabagno. Difficile, poi, che il capo degli esattori possa incantare un popolo vessato dal fisco. Il correntone riformista, invece, predilige il regolamento di conti interno. Ovverosia: abbandonare il radicalismo di Elly, che continua a dare il meglio in contesti settantottini e gay pride, per tornare al più rassicurante passato. E tra le vecchie ed evocate glorie, nessuno scalda i cuori come «Er Moviola»: Paolo Gentiloni, ex premier e commissario europeo, che ha pure partecipato alla riunione di«Libertàeguale» a Orvieto.

Agatha Christie avverte: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Dopo i due convegni, è intervenuto persino il mentore di Elly, quel volpone di Dario Franceschini. Il campo largo è un fallimento, spiega a Repubblica: «I partiti che formano la possibile alternativa alla destra sono diversi e lo resteranno. È inutile fingere che si possa fare un’operazione come fu quella dell’Ulivo». Occorre marciare divisi alle elezioni, per poi colpire uniti tentando improbabili alleanze. La strategia maoista sconfessa però i disperati tentativi della segretaria dem, già definitasi «testardamente unitaria».

Ecco l’ennesimo indizio, appunto: il tradimento di «Giuda» Franceschini, che già pugnalò Enrico Letta nel 2014. E dunque, la decisiva prova: vogliono sbarazzarsi di Elly. Il prima possibile, pure. Del resto, ad aprile 2025 diventerebbe la terza segretaria più longeva della storia del Pd, dopo Renzi e Pier Luigi Bersani. Due anni filati. Per i dem, un’eternità. E poi, c’è l’incrollabile e fondatissima certezza: contro Giorgia, alle prossime politiche, rimedierebbe un’epocale figuraccia. Non ne sono convinti solo i machiavellici colleghi, tra l’altro. Nutrono considerevoli riserve anche celebri simpatizzanti. La cantante Elodie, regina del pop italiano, ora informa: «Sono di sinistra ma non voto Schlein, non ha carisma». Il giornalista Corrado Augias, venerato maestro d’area, su Elly sorvola: «Passerei alla prossima domanda», dice intervistato dal Corriere della Sera. Non a caso in via della Scrofa, quartiere generale di Fratelli d’Italia, della possibile antagonista si parla sempre con entusiasmo: «Che Dio ce la conservi».

Allarme rosso, dunque. Serve Romano: il padre nobile, il creatore dell’Ulivo, l’unico a vincere un’elezione nell’ultimo trentennio. Il «simbolo» che faceva palpitare la giovane Elly. Nel lontano 2013, appunto, lo segue allora tra i vicoli bolognesi, per consegnargli quel simbolico attestato di imperitura stima. La sgualcita maglietta, colma di firme scarabocchiate dai speranzosi militanti: «Sono indelebili, eh». Come lui, d’altronde. È scatenatissimo, Prodi. Non solo contro il governo. Felpato e perfido, se la prende pure con la vecchia estimatrice. Gliel’ha giurata da quando ha osato non ascoltarlo, prima delle ultime europee. Lei, per non venire annichilita da Meloni, capolista civetta. Lui, ex presidente della Commissione, in plateale disaccordo: «La sua candidatura è una ferita alla democrazia». Lei abbozza: «Io Prodi lo ascolto sempre, per me è un punto di riferimento». Lui se la lega al dito: con lo spago bello spesso.

Elly, intanto, candida tutti i «cacicchi» acchiappavoti: Stefano Bonaccini, Antonio Decaro, Giorgio Gori, Dario Nardella, Matteo Ricci. Loro in esilio a Bruxelles. Lei spadroneggia a Roma, cinta da improbabili e ignoti fedelissimi. Anche alle successive amministrative si limita a mettere il cappello arcobaleno sui prescelti: dalla sindaca di Firenze, Sara Funaro, alla governatrice umbra, Stefania Proietti. Per il resto, fa quel che può. Emula il massimalismo della Cgil di Maurizio Landini. Continua a vagheggiare un’alleanza con i Cinque stelle di Giuseppe Conte, più esitante che mai. Si fa corteggiare da Renzi, colui che aveva guidato la rivolta per allontanare Prodi dal Quirinale. Il male assoluto, insomma. Tanto che lei, nel 2015, lascia i democratici per le presunte pulsioni berlusconiane dell’allora premier e segretario. Lo riaccusa di tradimento a ottobre 2022, il giorno dell’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato: «Vergognoso! Hanno aiutato la destra, come i 101 che tradirono Prodi». Sempre lì, appunto, si torna. Eppure, con questa malassortita campagnia, vagheggia la riscossa alle prossime politiche. La loro debolezza, immagina, sarà la sua forza. Momento propizio. Elly contro Giorgia.

Gli altri eccepiscono, ovvio. Ma non basta. Sa essere spietata, la segretaria. E il partito non pullula certo di valorosi. Serve il ritorno dell’indimenticabile fondatore, che nulla ha da perdere. Prodi inforca ancora la bici. Ha fiato e gambe. «Schlein ha recuperato una valanga di consensi, ma non potrà mai vincere da sola» annuncia. «Bisogna creare la coalizione» insiste. «Un mono partito capace di esprimere una maggioranza in grado di governare è un pio desiderio» suggella. La generalessa dem è senza esercito, ma coltiva smodate ambizioni. Mentre aspetta e spera di sfidare Meloni, si prepara alle prossime regionali. Muove pedine, redige patti, elabora strategie. Solito problema, però: tra i più devoti, nessun nome è spendibile. Le tocca chiamare da Bruxelles i riservisti. In Puglia punta su Decaro, ex sindaco di Bari. Nelle Marche ipotizza Ricci, già alla guida di Pesaro. In Toscana avanza l’uscente, Eugenio Giani, ma scalpita pure il nostalgico Nardella.

Insomma, l’ex leader di Occupy Pd è riuscita nel dichiarato intento giovanile: invadere il Nazareno, per far fuori i soliti noti. Ma dopo la fallita rivoluzione arriva sempre la restaurazione. I destini tornano nelle mani di stagionati potentoni. L’infaticabile Prodi è pronto a scollinare. «Consegna effettuata!» esulta Elly su Facebook, nel lontano 2013. «C’è ancora un motivo di credere nel Pd, e sta nell’entusiasmo e la passione di chi lo cambierà». Adesso, invece, l’idolatrato Professore boccia la supponente allieva. Si sa: non far del bene, quando non sei pronto all’ingratitudine. Ma poi: non le aveva annunciato la pensione? E comunque: chissà dov’è finita quella dannata maglietta…