Conti pubblici, ecco cosa ci aspetta | Lo scenario dell’economista Giuseppe Coco
Per capire cosa ci aspetta nel 2025 dobbiamo capire cosa è successo in Italia (e nel mondo) negli ultimi anni. Il nostro paese ha attraversato una fase economica decisamente positiva negli ultimi anni. Pur avendo subito una recessione più profonda nel 2020 per effetto del covid (e delle chiusure più prolungate probabilmente non tutte necessarie), […] L'articolo Conti pubblici, ecco cosa ci aspetta | Lo scenario dell’economista Giuseppe Coco proviene da Osservatorio Riparte l'Italia.
Per capire cosa ci aspetta nel 2025 dobbiamo capire cosa è successo in Italia (e nel mondo) negli ultimi anni.
Il nostro paese ha attraversato una fase economica decisamente positiva negli ultimi anni. Pur avendo subito una recessione più profonda nel 2020 per effetto del covid (e delle chiusure più prolungate probabilmente non tutte necessarie), ha ‘rimbalzato’ più di tutti i grandi paesi europei, recuperato interamente la crisi nel solo 2021, ed è cresciuto del 4,5 e 0,7 nel 2022 e 2023 (l’area euro ad esempio solo 3, 5 e 0,4 rispettivamente).
Il 2024 è andato decisamente peggio e probabilmente si attesterà allo 0,5%, vicini alla anemica crescita europea. Soprattutto la nostra economia sta chiaramente frenando nonostante la spesa del PNRR, ed anche le previsioni per il 2025 sono state ridimensionate, sicuramente sotto l’1%, ma con rischi consistenti al ribasso. Cosa si è bloccato nella crescita che si era innescata nel 2022 e 2023 e quali sono i rischi?
Per capirlo dobbiamo guardare alle cause di quella crescita.
L’Italia ha, negli anni scorsi, potuto rilassare in maniera inusitata il vincolo di bilancio pubblico per l’effetto COVID. La sospensione del Patto di Stabilità, ma soprattutto la rete di protezione della BCE sul nostro debito hanno consentito anno dopo anno deficit mai visti negli anni precedenti. Il grosso della nuova spesa pubblica è andato ai bonus edilizi per i quali sembra ormai consolidata la stima di 200 miliardi di spesa complessiva dal 2020 e che impatteranno anche negli anni prossimi. La spesa pubblica in rapporto al Pil è cresciuta dal 2019 dal 48,4% al 53-55% del 2023-4 (il rapporto era anche maggiore negli anni intermedi ma perché il Pil era basso per la recessione COVID).
Questo in parte spiega perché il Pil è rimbalzato tanto nel 2022, nonostante le stime della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio sull’effetto del superbonus siano deludenti. 200 miliardi sono circa il 10% del Pil del 2022. Una immissione di risorse pubbliche così importante sicuramente ha generato un effetto comunque importante sul PIL. Forse avremmo potuto avere un effetto anche maggiore (e meno regressivo) distribuendo letteralmente 2000 euro a testa a ogni italiano (compresi i neonati).
Ciononostante, il rapporto debito/PIL non è cresciuto in misura esplosiva come queste cifre farebbero presagire. Come mai? Il motivo è che abbiamo beneficiato di un effetto di svalutazione implicita del debito dovuto alla grande inflazione inattesa del 2022.
Il forte incremento dei prezzi, infatti, ha gonfiato il PIL nominale, e con esso le entrate fiscali, ma il costo del grosso del nostro debito era ancorato a tassi di interessi molto più bassi dell’inflazione. Questo ‘sgonfia’ automaticamente il debito ed anzi l’inflazione inattesa è proprio uno dei meccanismi classici per uscire da un debito eccessivo, un meccanismo però che l’Italia non può utilizzare perché la politica monetaria è gestita dalla BCE (ci sono forti dubbi che si possa utilizzare comunque senza danni, ma noi non possiamo).
Insomma, il nostro debito si è svalutato automaticamente e di tanto (secondo una stima contenuta nel DEF del 4,5% nel 2023 e dell’1% nel 2024). Questo automatismo ci ha consentito temporaneamente una stabilità dei conti pubblici con una spesa esplosiva, e a sua volta questa stabilità ha tenuto sotto controllo anche i tassi sul debito stesso. Ma ora le cose cambiano. I tassi di interesse si sono in parte adeguati all’inflazione e man mano che rinnoviamo il debito, aumenta il suo costo. Allo stesso tempo l’inflazione è sotto controllo ed è meno inattesa.
Alcune poste del nostro bilancio che non si sono adeguate immediatamente consentendo al governo un margine ulteriore (ad esempio i salari pubblici che aspettano rinnovi di contratto o le indicizzazioni su pensioni) hanno ricominciato a crescere. Mentre le entrate crescevano automaticamente con l’inflazione, i costi non crescevano. Ora la dinamica si sta invertendo, con bassa inflazione le entrate smettono di crescere, ma i costi aumentano perché i contratti pubblici vengono rinnovati. Con l’inversione anche della favorevole dinamica degli interessi reali questo potrebbe porre dei significativi problemi di bilancio.
In questo quadro si inserisce un aumento generalizzato dei tassi sui debiti sovrani dell’ultimo mese. Da metà dicembre i tassi sul BTP a 10 anni sono cresciuti di mezzo punto.
Un modo di capire cosa è successo è ipotizzare cosa sarebbe accaduto se non avessimo aumentato la spesa in maniera così consistente. Probabilmente il bonus inflazione sui conti pubblici avrebbe svalutato il debito in maniera consistente, ma avremmo avuto meno crescita (non molto meno però, il grande rimbalzo del 2021 è indipendente dal superbonus).
Un altro modo di vedere le cose è immaginare se l’enorme spesa pubblica per il superbonus fosse stata usata anche parzialmente in altra maniera (ad esempio con un superbonus al 80% invece del 110%) ed un incremento della spesa in conto capitale su istruzione o sanità. L’effetto sul PIL sarebbe stato quasi certamente analogo, ma oggi avremmo servizi un po’ migliori.
Un ultimo modo è guardare ai flussi redistributivi tra categorie. L’inflazione ha colpito soprattutto i salariati, in particolare del settore pubblico che hanno visto i salari reali ridursi almeno per alcuni anni. La svalutazione del debito e la stabilità dei conti l’hanno pagata loro. I benefici sono andati a proprietari di immobili (sproporzionatamente a immobili residenziali indipendenti per le modalità del superbonus), e alle categorie produttive nel settore edilizio, in misura maggiore ai più spregiudicati.
È importante capire che la responsabilità di questa situazione ricade non solo sul governo che realizzò il superbonus, ma su tutte le forze che strenuamente l’hanno difeso e prorogato nel 2022, contro il parere di Mario Draghi, e nel 2023.
In questo quadro ci sono due elementi di stabilità. Uno è il fatto che le spese del superbonus sono temporanee e quindi la spesa recederà automaticamente. Questo elemento però è anche il prodotto degli incentivi perversi dei diversi governi degli ultimi anni a destinare risorse a poste che poi scadono, come i bonus. Se avessimo speso sulla spesa corrente della sanità, ad esempio, quelle poste sarebbero diventate strutturali nel bilancio e prodotto effetti a lungo termine.
Il superbonus invece distribuisce 200 miliardi in pochi anni a soggetti che saranno grati, e poi scompare. Questo tipo di misura può ‘riaccendere il ‘motore’, ma se la macchina è scassata serve a poco nel lungo termine. Dopo pochi chilometri saremo di nuovo in panne. Se vogliamo incidere sulla macchina dobbiamo aggiustare il motore, aumentare le nostre capacità complessive con i servizi essenziali, istruzione e sanità, migliorare la capacità innovativa e gli investimenti. Ma gli incentivi politici ci spingono in altra direzione.
Il secondo elemento di stabilità è l’atteggiamento recente di relativa prudenza tenuto dal governo sui conti pubblici. Il miglioramento della situazione economica degli anni passati e il bonus ‘inflazione’ sui conti pubblici avrebbero infatti potuto indurre appetiti importanti sulla spesa (o sulle entrate). Il governo ha almeno resistito alle richieste più folli, con ciò mantenendo basso anche il costo del debito per un tempo lungo (con l’aiuto della BCE). Ma tutto ciò sta per finire e di certo non abbiamo riparato la macchina.
Non a caso il Global Risk Report del World Economic Forum nei giorni scorsi ha segnalato che, mentre per il resto del mondo i principali rischi sono legati ai conflitti e alle conseguenze dei cambiamenti climatici, i rischi principali per l’Italia sono quasi tutti economici. Non che le guerre non ci interessino beninteso.
L'articolo Conti pubblici, ecco cosa ci aspetta | Lo scenario dell’economista Giuseppe Coco proviene da Osservatorio Riparte l'Italia.
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