Fuori luogo, dentro l’ufficio

«Ma dai, era solo una battuta!». Peccato che non faccia ridere. Perché c’è bisogno di spiegare che era una battuta? Perché forse nasconde una discriminazione o una micro-aggressione. Che sarà anche “micro”, ma il prefisso non descrive né la qualità né l’impatto di questo fenomeno, che consiste in vere e proprie aggressioni che, per la […] L'articolo Fuori luogo, dentro l’ufficio proviene da Economy Magazine.

Jan 22, 2025 - 06:54
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Fuori luogo, dentro l’ufficio

«Ma dai, era solo una battuta!». Peccato che non faccia ridere. Perché c’è bisogno di spiegare che era una battuta? Perché forse nasconde una discriminazione o una micro-aggressione. Che sarà anche “micro”, ma il prefisso non descrive né la qualità né l’impatto di questo fenomeno, che consiste in vere e proprie aggressioni che, per la dinamica subdola con cui avvengono, si rendono difficili da riconoscere, identificare e dimostrare. Lasciano infatti un forte senso di frustrazione e impotenza sia in chi le subisce che in chi vi assiste. «Le micro-aggressioni verbali rappresentano una parte del fenomeno più ampio delle discriminazioni una parte nascosta e difficile da individuare ed eliminare», spiega a Economy Simona Liguoro, Direttrice HR di Nespresso Italiana, che ha condotto un esperimento sociale coinvolgendo, a loro insaputa, un gruppo di persone di Nespresso in un finto corso di storytelling gestito in realtà da attori e attrici che hanno messo in scena una serie di comportamenti ed espressioni discriminatorie sottoforma di battute e allusioni più o meno celate, una sorta di candid camera (realizzata in collaborazione con Brandstories), con attori e attrici che hanno messo in scena conversazioni, battutine e scambi tra loro, facendo credere agli astanti di trovarsi davvero in una situazione discriminante tra bodyshaming, ageismo, sarcasmo, interrupting, sessimo. Il risultato? Espressioni dubbiose, contrariate e stranite dei presenti, ma solo due persone sono riuscite a intervenire direttamente chiedendo al finto speaker di non essere discriminatorio verso l’altra persona. «l social experiment è stato un momento molto forte», continua Liguoro: «la tensione si tagliava con il coltello; potevamo fisicamente sentire le emozioni di colleghe e colleghi. Sperimentare in uno spazio ed in un tempo molto compresso e in una situazione così plateale ci ha fatto capire esattamente qual è il punto: cosa sono le micro-aggressioni, che sentimenti creino e quanto possano essere bloccanti. Il passo successivo è stato dare il via al ciclo di incontri “Dire, fare, non restare a guardare, per trovare soluzioni insieme. Attraverso il confronto, la condivisione delle emozioni sperimentiamo diversi modi di reagire alle micro-aggressioni perché ogni persona la sua personalissima modalità di affrontare le micro-discriminazioni. In azienda, e più in generale in tutta la società».
Non solo: candida camera a parte, Nespresso è andata un po’ più a fondo, con un’indagine che ha coinvolto la business community su LinkedIn (e la consulenza delle esperte di DE&I Chiara Bisconti e Valentina Dolciotti). Ebbene: la ricerca ha rilevato che il 62% è stato o stata vittima di micro-aggressioni e il 70% vi ha assistito almeno una volta. Si tratta di commenti e allusioni, più o meno dirette, che nel 41% dei casi si concentra sul genere delle persone (sessismo), ma anche sull’età (ageismo) e sull’aspetto fisico (bodyshaming), rispettivamente per il 18 e il 15%. Vere e proprie discriminazioni che nell’80% dei casi non vengono classificate come tali per via della scarsa consapevolezza nei luoghi di lavoro di cosa siano realmente le micro-aggressioni, ma che contribuiscono a scaturire in chi le subisce, e in chi vi assiste, emozioni di disagio e rabbia (è così per più di 1 persona su 4). Seguono delusione (18%) e tristezza (14%).
Questo perché parte di un fenomeno che si muove su una linea di confine molto sottile tra ironia e offesa personale, per cui più della metà dei rispondenti fa fatica a segnare una netta distinzione. Un elevato grado di incertezza che porta quasi il 30% dei rispondenti a non sapere come reagire di fronte a queste situazioni, seguito da quasi un 20% che non è certo si tratti di una micro-aggressione, e un 17% che non è riuscito a gestire le emozioni. Nelle situazioni in cui invece si assiste a questi momenti emerge anche la difficoltà a esporsi pubblicamente (20%) e la paura della reazione altri (17%), ma anche un 30% che sceglie di parlare in separata sede con chi ha subito la discriminazione (in termini di supporto) e un 21% che ha preso con fermezza e pubblicamente le difese della persona aggredita. La situazione si complica ulteriormente quando la micro-aggressione arriva da un ruolo superiore in grado, casistica che ne rende ancora più difficile la gestione nell’84% dei casi, mentre per oltre la metà è difficile distinguere tra battute e micro-aggressioni verbali (53%). «Lo sappiamo che succede spesso. È che non ne siamo consapevoli. Non riusciamo a capire se la battuta che ci hanno fatto, o che abbiamo visto fare, voleva far ridere o mascherava un’intenzione diversa», sottolinea Chiara Bisconti, consulente per le risorse umane. «E questa cosa la maggior parte delle volte ci frustra. E ci fa sentire esclusi ed escluse. Riconoscere questi meccanismi – con il loro portato di emozioni – provare a capire come affrontarli, sono passi fondamentali per creare un ambiente inclusivo, dove tutte le persone possano sentirsi a proprio agio. È necessario fare formazione, promuovere dialoghi all’interno dell’azienda, attivare l’ascolto. Per arrivare a capire che le aziende possono essere comunità di persone che si aiutano, si supportano e collaborano, rispettandosi sempre».

Per non parlare delle molestie

Fossero solo le battutine, il problema. E invece, tutte, ma proprio tutte, le ricerche concordano su un punto: sul posto di lavoro, il numero delle vittime di violenza sulle donne fa impressione. È addirittura l’Istat a confermarlo: il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Per essere precisi, il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).
«La libertà da violenze e molestie sul luogo di lavoro è un diritto umano fondamentale, ancora lontano dall’essere garantito per tutti», sostiene Martina Albini, coordinatrice centro studi di WeWorld, un’organizzazione no profit italiana indipendente attiva in 26 Paesi compresa l’Italia, e curatrice del rapporto Non staremo al nostro posto. Per il diritto a un lavoro libero da molestie e violenze, realizzato con Ipsos. L’indagine rivela una realtà lavorativa tutt’altro che sicura, con una persona su sette che dichiara di conoscere episodi di violenza sul proprio posto di lavoro. Tra le forme di violenza più diffuse troviamo la verbale (56%), il mobbing (53%) e l’abuso di potere (37%) – segno di quanto tossico possa essere l’ambiente di lavoro per molti. Particolarmente allarmante è il dato sulle micro-aggressioni: oltre il 70% dei partecipanti ha assistito o subito linguaggio sessista o paternalistico, e ben il 58% lo ha vissuto in prima persona. Le donne, inoltre, risultano più esposte a pratiche come il mansplaining e avances inopportune.
«La libertà da violenze e molestie sul luogo di lavoro è un diritto umano fondamentale, ancora lontano dall’essere garantito per tutti», continua Martina Albini. «La ricerca dimostra che non si tratta di eventi isolati ma di un problema radicato e diffuso. In particolare, le donne sono vittime di un ambiente spesso ostile, dove molestie e micro-aggressioni come il mansplaining e avances inappropriate minano la loro sicurezza e benessere». Tanto che il 25% delle persone intervistate ha lasciato il lavoro a causa di violenze subite, evidenziando quanto l’impatto di queste dinamiche vada oltre la sfera personale e colpisca anche le aziende, con la perdita di talento e produttività.
Per dare un’idea della misura di questi fenomeni, basti sapere che il 60% di lavoratori e lavoratrici è a conoscenza di episodi di violenza avvenuti sul proprio luogo di lavoro. E se una persona su cinque (22%) ha subito violenza sul proprio posto di lavoro almeno una volta nella vita, tra le donne il dato sale a più di una su quattro (28%). Gli autori delle violenze sul lavoro sono soprattutto capi (42%) o colleghi uomini (35%), seguiti a distanza da colleghe (22%) e cape donne (13%). Le consuenze? Stress e ansia, segnalate dal 56% delle persone intervistate. Subito dopo, il burnout, indicato dal 33%, seguito da una diminuzione dell’autostima (30%), dalle dimissioni (25%) e dalla depressione (21%). Perché non si denuncia? Innanzitutto per paura di perdere il lavoro, un sentimento condiviso dal 59% del campione, che sale al 62% tra le donne. Il 53% esprime timore di ritorsioni da parte di chi ha commesso la violenza, mentre il 41% ritiene che denunciare non servirebbe a nulla. E per 1 persona su 7 (14%) il motivo principale per cui le violenze sul luogo di lavoro non vengono denunciate è perché non si sa a chi riportarle all’interno della propria azienda, manche (per più di 1 donna su 4, il 26%, per il timore di non essere creduta.
Per contrastare il fenomeno, i lavoratori e le lavoratrici indicano come iniziative più efficaci l’istituzione di sanzioni per comportamenti violenti (37%), la gestione rapida e seria delle segnalazioni di violenza (37%) e la possibilità di denunciare episodi di violenza tramite linee di segnalazione anonime (32%). Non solo: 1 persona su 4 ritiene (25%) che le aziende dovrebbero offrire accesso a servizi di consulenza psicologica per chi ha assistito e/o subito violenza sul posto di lavoro. E solo il 12% del campione ha identificato come prioritaria l’organizzazione di workshop per sensibilizzare la popolazione aziendale sui vari tipi di violenza di genere.
«Agire sulla prevenzione è essenziale per evitare che certi comportamenti diventino la norma e che gli ambienti di lavoro si trasformino in luoghi di abuso», conclude la coordinatrice del centro studi di WeWorld. Le aziende devono promuovere una leadership responsabile e rispettosa, che valorizzi il rispetto e l’uguaglianza, agendo non solo sui sintomi ma sulle cause profonde di questa problematica. Solo con un intervento mirato, infatti, possiamo garantire un ambiente sicuro per tutti, dove la dignità della persona è al centro, e costruire un futuro senza violenze sul lavoro».

Guarda il video:

Quel gap incolmabile in azienda tra la consapevolezza e l’azione

di Riccardo Venturi

Solo un terzo delle aziende ha implementato politiche scritte per contrastare le molestie sul lavoro; il 64,6% non offre alcuna formazione specifica ai dipendenti sulla loro prevenzione, e oltre la metà non ha sistemi sicuri e anonimi per segnalarle. Non sono entusiasmanti i dati che emergono dall’analisi “La prevenzione delle molestie sul lavoro nelle aziende: un’emergenza silenziosa”, realizzata da Assosomm, Associazione Italiana delle Agenzie per il Lavoro, insieme a 6libera.org, Osservatorio contro le molestie e violenze sul lavoro, con il Censis. «C’è un gap enorme tra la consapevolezza e l’azione. Le aziende sanno che il problema esiste, ma non stanno facendo abbastanza per risolverlo. Dobbiamo fornire strumenti e azioni per supportarle e incentivarle a informare i lavoratori e le lavoratrici e fare prevenzione» dice Dhebora Mirabelli, Presidente dell’Osservatorio. Che in questa intervista racconta la nascita e l’impegno dell’Osservatorio, che nel 2024 ha formato 12 mila lavoratori ed erogato 3500 ore di formazione.

Quando è nato l’Osservatorio 6libera.org?
Nel 2021: si tratta del primo dedicato alle molestie nel luogo di lavoro. Ci ha spinto la consapevolezza di essere a cavallo di un cambiamento, le imprese sono pronte a parlarne e a scendere in prima linea sul tema, grazie al fatto che l’attenzione alla responsabilità e alla sostenibilità sociale si sono affermate. L’osservatorio vuole essere un segnale, vuole far capire che sia lavoratori che imprese possono essere messe sullo stesso piano nell’impegno a fare qualcosa per la prevenzione, il contrasto e la formazione.

Quali azioni proponete alle aziende?
Possono sottoscrivere la dichiarazione di inaccettabilità di ogni condotta lesiva della dignità umana, che è suggerita dalle politiche sociali e dagli accordi datoriali europei; entrare così a far parte di un database di aziende etiche virtuose che hanno sottoscritto questo impegno; e poi la possibilità di coinvolgerci e chiederci supporto, per la formazione e per organizzare azioni specifiche al loro interno.

E ai lavoratori?
Abbiamo pensato fosse necessario che potessero velocemente, in modo anonimo, raccontare la loro esperienza. Questo perché l’81 per 100 delle vittime di molestie non denuncia. Inoltre avevamo bisogno di ridurre il gap informativo sul tema per poter fornire degli input e delle linee di indirizzo ai governi e ai policymaker in genere. I lavoratori possono avere accesso a tutte le informazioni in modo da sapere a chi rivolgersi, e poi soprattutto segnalarci se per problemi di mobbing o molestie hanno dovuto lasciare il luogo di lavoro. Se vogliono mettersi in gioco, poi, possono cercare lavoro attraverso la nostra rete di imprese etiche: rimettere nel mercato del lavoro le persone vittime di abusi è molto importante.

Quali sono i dati più importanti che sono emersi dall’analisi del Censis?
Da un lato, il mondo imprenditoriale sta cambiando: il 76% delle imprese interpellate ha una maggiore consapevolezza della necessità di trattare questo tema al suo interno, e di non sottovalutarlo. Dall’altro, c’è ancora tanto da fare: solo un’azienda su quattro ha implementato una politica aziendale specifica contro le molestie e le violenze, e quasi il 65% non offre una formazione specifica sul tema. Ancora, soltanto il 24% dei dipendenti intervistati è a conoscenza di quali sono le gli obblighi dei datori di lavoro e quali le forme di tutela. Eppure l’Italia il 15 gennaio 2021 ha ratificato la convenzione internazionale dell’ILO (Organizzazione internazionale per il lavoro) contro le molestie e le violenze nei luoghi di lavoro, entrata in vigore in ritardo nell’ottobre del 2022, che ci dice che dobbiamo occuparci di formazione, promuovere politiche attive nelle aziende, e anche includere queste norme nel testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Quante donne hanno subito una molestia sul lavoro?
Oggi che c’è più coraggio di parlarne, sono emersi oltre due milioni di casi. Ma i numeri veri sono molto più alti: una donna lavoratrice su tre.

Chi si ricorda la Convenzione?

Evidentemente, la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) del 2019 – ratificata dall’Italia nel 2021 – è già caduta nel dimenticatoio. Eppure, sulla carta definisce chiaramente che le molestie e le violenze, comprese quelle di genere, sono intollerabili. E classifica come violenze non solo i comportamenti che causano danno fisico, psicologico, sessuale o economico a chi li subisce, compresa la violenza di genere, ma anche i comportamenti aggressivi o molesti basati sul sesso o genere della persona, o che colpiscono in modo sproporzionato chi appartiene a un certo genere… solitamente quello femminile. Così, le violenze possono essere fisiche (come schiaffi o aggressioni), psicologiche (insulti, emarginazioni), sessuali (avance indesiderate, ricatti) o economiche (ostacoli alla crescita professionale). Possono verificarsi tra superiori e subordinati (violenza verticale), tra colleghi e colleghe (orizzontale) o essere causate da clienti e terzi.. E anche il concetto di “luogo di lavoro” è ampliato, includendo non solo l’ufficio tradizionale, ma anche spazi comuni come mense e spogliatoi; spostamenti o viaggi di lavoro, corsi di formazione ed eventi sociali; comunicazioni digitali legate al lavoro, inclusi messaggi online; alloggi forniti dai datori di lavoro; spostamenti da e verso il lavoro. Con la Convenzione n. 190, l’Italia non si limita a condannare le violenze e le molestie, ma si impegna a costruire ambienti di lavoro più rispettosi e sicuri per tutte e tutti, riconoscendo l’importanza di tutelare la dignità e i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Questo sulla carta. Perché la realtà è un’altra cosa.

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