Che fine farà il brand activism?
Per anni, il brand activism è stato il mantra dei grandi marchi, una strategia in cui le aziende si schieravano apertamente su questioni sociali e ambientali per creare connessioni profonde con i consumatori e gli investitori. Oggi però, quello che sembrava un impegno imprescindibile per conquistare fiducia e rilevanza sembra passare in secondo piano. Alcuni […] L'articolo Che fine farà il brand activism? proviene da Economy Magazine.
Per anni, il brand activism è stato il mantra dei grandi marchi, una strategia in cui le aziende si schieravano apertamente su questioni sociali e ambientali per creare connessioni profonde con i consumatori e gli investitori. Oggi però, quello che sembrava un impegno imprescindibile per conquistare fiducia e rilevanza sembra passare in secondo piano. Alcuni brand, dopo aver costruito narrazioni potenti su diversità, equità e inclusione, stanno riducendo drasticamente i loro sforzi in queste aree, lasciando spazio a un distacco preoccupante. Ma è davvero una strategia profonda o solo un asservimento al contesto politico attuale, che rischia di diventare un boomerang?
Soprattutto l’ultimo anno ha visto un crescente disimpegno da parte di colossi americani come Meta, Amazon, Harley-Davidson e Jack Daniel’s. Oltre alla riduzione dei programmi DEI, alcune aziende hanno compiuto ulteriori scelte controverse, come la decisione di Meta di cancellare il programma di fact-checking negli Stati Uniti, o la scelta di Amazon e JP Morgan di abolire lo smart working, o la decisione di BlackRock, la più grande società di gestione degli investimenti al mondo, di uscire dalla Net Zero Asset Managers Initiative, un raggruppamento di oltre trecento enti finanziari impegnati nell’azione climatica e nell’azzeramento netto delle emissioni di gas serra entro il 2050. Tutto questo dice molto rispetto alla visione di queste aziende riguardo il futuro delle persone e della sopravvivenza su questo Pianeta.
Queste decisioni sono spesso giustificate da considerazioni politiche e culturali. Da un lato, si cerca di evitare il rischio di polarizzare i consumatori; dall’altro, si alimentano preoccupazioni legate al presunto impatto negativo delle politiche DEI, accusate di promuovere favoritismi e discriminazioni inverse. Questo disimpegno non solo mette a rischio i progressi verso l’inclusione e la trasparenza, ma solleva interrogativi sui suoi impatti globali.
Parallelamente, numerosi studi evidenziano che le aziende impegnate in politiche DEI ottengono risultati finanziari e operativi migliori. Secondo McKinsey, le organizzazioni con una maggiore diversità di genere hanno il 25% di probabilità in più di superare la redditività media del settore. Inoltre, uno studio di Deloitte mostra che le imprese con ambienti inclusivi registrano un aumento del 30% nella produttività del personale, dimostrando che investire in DEI non è solo una scelta etica, ma anche un vantaggio competitivo.
L’Europa, peraltro, si muove nella direzione opposta, spingendo le aziende verso standard di rendicontazione più rigorosi.
La Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), entrata in vigore a partire dal 2024, richiede alle aziende con una presenza nell’Unione Europea di fornire informazioni dettagliate e misurabili sulle loro performance in ambito ambientale, sociale e di governance (ESG). E la direttiva sulla Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CS3D) richiede alle aziende di valutare e gestire i rischi legati ai diritti umani e all’ambiente lungo l’intera supply chain.
Le scelte divergenti tra aziende come Apple, che ribadisce l’importanza della DEI, e Meta, che ne riduce gli investimenti, mostrano due modelli opposti di gestione aziendale. Tuttavia, il futuro delle imprese resta legato alla trasparenza e all’impegno verso la sostenibilità e i diritti umani. La CSRD e la CS3D dimostrano come l’Europa stia costruendo un modello economico basato su inclusione e responsabilità, incoraggiando le aziende a considerare la diversità come un vantaggio strategico e non come un costo.
In un mercato sempre più interconnesso, l’adozione di politiche DEI e di trasparenza non rappresenta solo una questione di compliance normativa, ma soprattutto una leva per innovare, competere e costruire fiducia. Le imprese che scelgono di ignorare questi segnali rischiano di essere superate non solo in termini economici, ma anche nella loro capacità di influenzare positivamente la società, attrarre e mantenere talenti, innovare, farsi guida e riferimento per lo sviluppo futuro.
La differenza tra i diversi modelli sta proprio nella scelta di adottare una visione strategica connaturata con il business che metta al centro i diritti umani, non banalmente come prassi di conformità a leggi e regolamenti, ma come radice di governance, leadership e responsabilità sociale.
Senza innescare facili polemiche sulla cultura woke, vien difficile immaginare come il progressivo abbandono di politiche di valorizzazione delle differenze, di contrasto alle disparità e di impegno sociale e civile sui diritti umani e sull’ambiente possa portare ad un vantaggio competitivo per le imprese sul lungo periodo.
La misurazione è l’elemento essenziale. Secondo le Linee Guida dell’Osservatorio DE&I del Global Compact Network Italia, appena pubblicate, introdurre e monitorare indicatori chiave di performance (KPI) consente alle aziende di valutare l’impatto delle proprie iniziative e identificare aree di miglioramento. Tra i KPI più utilizzati vi sono la diversità demografica (91% delle aziende), l’equità salariale (73%), e il turnover del personale (73%), con effetti molto concreti sul business e sulle performance aziendali. L’Osservatorio segnala inoltre quali sono le dimensioni meno monitorate: supply chain, employee resource group e analisi delle segnalazioni, il che significa che c’è ancora molto lavoro da fare.
In ogni caso, gli esempi positivi sono molto più numerosi di quelli negativi, solo che, come spesso accade, ricevono meno attenzione mediatica. Le aziende che partecipano all’Osservatorio UNGC, ad esempio, come Enel, Intesa Sanpaolo, TIM, A2A, Edison, Gruppo FS, Leroy Merlin e molti altri, hanno dimostrato come l’integrazione strategica della DEI nei propri piani di sviluppo e di business porti benefici tangibili e misurabili.
In conclusione, l’allineamento al nuovo contesto politico potrà compromettere la sostenibilità e la credibilità a lungo termine dei business? Ovvero, saltare sul carro del vincitore, senza considerare le conseguenze al di là di un mandato politico, è davvero una scelta vincente?
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